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DI seguito la seconda parte delle riflessioni dell’avvocato e giurista potentino Ivan Russo sulle accuse per cui il gip del Tribunale di Catanzaro, sede competente per le cause che riguardano i magistrati lucani, ha di recente accolto l’opposizione alla richiesta di archiviazione delle indagini, e disposto l’imputazione coatta per ricettazione e calunnia nei confronti del condirettore del Quotidiano del Sud, Roberto Marino, e il redattore Leo Amato.

Opposizione presentata dagli autori della denuncia nei confronti dei due giornalisti: vale a dire il cardiochirurgo del San Carlo di Potenza, Fausto Saponara, e la moglie Gerardina Romaniello, all’epoca dei fatti presidente del Tribunale del riesame del capoluogo lucano, ma da 5 anni in servizio come giudice a Salerno. Proprio la sede competente per le cause che riguardano i magistrati del distretto di Catanzaro.
Al vaglio del Tribunale calabrese c’è sempre la contro-inchiesta del Quotidiano sulla vicenda giudiziaria che si è sviluppata, a partire dal 2014, attorno alla morte di una donna durante un intervento di cardiochirurgia al San Carlo. La medesima contro-inchiesta che ha portato alla luce la strumentalizzazione e il condizionamento mediatico del presunto omicidio da parte di Romaniello e Saponara, che era in causa con l’azienda ospedaliera. Tanto che nel 2018 il Consiglio superiore della magistratura ha già disposto la censura nei confronti di Romaniello per aver abusato del ruolo di giudice per interessi di natura privata rivolgendosi alla giornalista di un’altra testata, Giusi Cavallo di Basilicata24.

Il suo obiettivo, secondo la pronuncia del Csm successivamente confermata dalle sezioni unite della Corte di cassazione, era di indebolire la controparte del marito nel suo contenzioso di lavoro, ovvero l’azienda ospedaliera regionale San Carlo, amplificando il racconto di quanto avvenuto in sala operatoria. Racconto che, peraltro, è stato poi smentito dagli esiti del processo nei confronti di 3 colleghi di Saponara, tra cui l’ex primario. Tutti e tre assolti dall’accusa di omicidio colposo dopo essere finiti, per un breve periodo, persino agli arresti domiciliari. In seguito all’esplosione pilotata del caso a livello mediatico nell’autunno del 2014.
Nella querela e l’opposizione alla richiesta di archiviazione delle accuse a carico di Marino ed Amato, accolta dal gip, Romaniello e Saponara contestano l’utilizzo a fini giornalistici, per una serie di articoli pubblicati sul Quotidiano del Sud dalla primavera del 2016 in poi, di una copia della registrazione che era stata effettuata di nascosto da Cavallo, 2 anni prima, durante un colloquio con i coniugi. Oltre alla consegna della stessa alla Procura di Potenza e al suo deposito come prova a discarico rispetto a una precente richiesta di risarcimento avviata da Saponara nei confronti di diversi giornalisti (tra i quali Amato).
Stando, in particolare, al capo di imputazione coatta per calunnia, i due giornalisti avrebbero accusato ingiustamente, a loro volta, Romaniello e Saponara di diffamazione, calunnia e abuso d’ufficio. Reati che sarebbero stati commessi dai due coniugi ai danni del San Carlo, dell’allora presidente della Regione, Marcello Pittella, e di Giuseppe Iuele, un ingegnere potentino a processo davanti alla stessa Romaniello per una complessa vicenda familiare e da tempo “di casa” nella redazione di Cavallo.
Nella registrazione consegnata ai pm da Marino e Amato, infatti, la giudice, rispondendo a una domanda della giornalista, aveva espresso considerazioni molto negative sull’ingegnere. Considerazioni riportate in un articolo pubblicato sul Quotidiano del Sud, su cui in seguito Iuele ha avviato una serie di azioni giudiziarie nei confronti di Romaniello.
A Marino e Amato viene quindi contestato un presunto accordo segreto con Cavallo e Iuele, per cui avrebbero consegnato alla procura una copia “manipolata” della registrazione del colloquio tra la giornalista e i coniugi Romaniello e Saponara. Copia da loro stessi epurata, secondo l’ipotesi accusatoria, dei minuti iniziali (presenti invece nella versione consegnata a distanza di poche ore dalla presunta complice Cavallo alla stessa procura), in cui si sente la voce dell’ingegnere mentre collabora alla sistemazione del microfono.
La circostanza della presunta manipolazione è stata comunque già vagliata dalla Corte di cassazione, e giudicata irrilevante rispetto all’accertamento dei fatti oggetto di contestazione disciplinare alla magistrata.
Sulla contro-inchiesta del Quotidiano del Sud sul presunto omicidio in cardiochirurgia sono stati avviati, a Cosenza (luogo di stampa del giornale) e Catanzaro, anche numerosi altri procedimenti penali per ipotesi di diffamazione a mezzo stampa sulla base di denunce presentate da Saponara e Romaniello. Tutti procedimenti attualmente pendenti tranne uno già definito con l’archiviazione delle accuse.
E’ stato avviato, inoltre, un procedimento civile ad Avellino già conclusosi col rigetto della domanda e la condanna alle spese legali dei coniugi Saponara-Romaniello.

di IVAN RUSSO*
Desidero muovere da un auspicio e una speranza, anche se non realizzabili a breve: che a giudicare delle posizioni dei magistrati (persone offese o imputati) sia la Corte Costituzionale (o una sua apposita sezione), i cui componenti, se giuristi specchiati, dovrebbero godere, tranne che per reati gravissimi (omicidio, strage, mafia, terrorismo, ecc.), di immunità a vita. Tal riforma della Costituzione impedirebbe l’inaccettabile stato attuale, che vede i magistrati assolversi o condannarsi a vicenda. E ciò diventa viepiù inaccettabile quando viene a crearsi una situazione in cui a giudicare di un magistrato sia un altro che si trova nel distretto nel quale il giudicabile esercita la competenza a conoscere dei reati eventualmente commessi dal giudicante.


In altre parole, e adducendo un esempio, se un pm di Roma finisce con il dover interessarsi di un fatto commesso da un collega di Perugia, viene a crearsi una dipendenza reciproca, poiché il distretto di Perugia è competente a conoscere dei fatti commessi dai pm romani; ragion per cui, il capitolino dice, seppur inconsciamente: «E, se un giorno ie capito a tiro, che me succede?».
Come si vede, si crea una situazione incresciosa di sudditanza reciproca, che può essere vinta solo dall’esistenza di grandi doti in capo ai protagonisti: libertà morale, armadi senza scheletri, indipendenza, dignità, coraggio, onestà, personalità; ma dette sono qualità che, se tutte insieme, «sì rade volte, padre, se ne coglie», direbbe il Poeta. Sicché il nostro auspicio rimane validissimo.


Ciò chiarito, veniamo all’intricata vicenda.
La premessa, avendo già parlato della ricettazione, è che, almeno negli atti di cui si discute, i giornalisti Leo Amato e Roberto Marino non rispondono pure di diffamazione (come impropriamente narrato da altri), bensì di sola calunnia. Essa si sostanzierebbe nell’aver accusato ingiustamente la dottoressa Romaniello e il marito di calunnia, diffamazione e abuso di ufficio.
Sgombriamo subito il campo da due gravi errori: per la diffamazione, né Amato, né Marino hanno sporto querela. Sicché, non vi è calunnia, poiché l’accusa, quand’anche ingiusta, di un reato perseguibile a querela (nella specie, la diffamazione), se non è accompagnata, appunto, dall’istanza di punizione, non integra alcuna calunnia: e questa è verità pacifica in giurisprudenza. Insomma, i due giornalisti si sono limitati a presentare il dischetto alla Procura della Repubblica di Potenza, senza sporgere querela contro nessuno, sicché non vi può essere calunnia.


Quanto all’abuso di ufficio, sedicentemente addebitato a Romaniello, si rileva altro errore. I due non hanno accusato la medesima di tal reato, poiché non hanno detto che l’abuso sarebbe avvenuto durante il servizio o la funzione; non hanno detto quale legge o regolamento avrebbe violato la dottoressa; non hanno indicato quale danno avrebbe ella creato. E invero, quanto alla critica correlativa al processo Iuele (il quale poi è stato prosciolto da altro giudice), i giornalisti si sono limitati a far presente, come era doveroso, che, stante i rapporti negativi tra i due, la Romaniello avrebbe fatto bene ad astenersi dal giudicare Iuele. Ma tale riflessione nulla ha da spartire con la calunnia!
Stando così le cose, esula il delitto di calunnia, poiché esula la denuncia per abuso di ufficio, che è reato il cui perfezionarsi richiede tutte e tre le condizioni appena descritte.
Rimane l’ingiusto addebito di calunnia ai danni dei due coniugi, sicché i due giornalisti risponderebbero, a loro volta e appunto, di essa. Sennonché, anche qui, non è dato rilevare alcuna infrazione penale.
Sul punto, la premessa principale è che la calunnia si consuma con l’accusare ingiustamente, ma direttamente alla Procura della Repubblica o a un organo che ha il dovere di informare i pm, taluno di un reato non commesso. Tutto ciò che viene scritto sui giornali può, al più, integrare il reato di diffamazione; ma nella specie esula anche tale reato poiché i due professionisti hanno esercitato il diritto di cronaca e hanno obbedito al dovere di informare i cittadini. In altre parole, la consegna del dischetto alla Procura, anche accompagnata da giudizi critici sull’operato dei due coniugi, assevera la verità dell’incontro e di ciò che si sono detti i tre protagonisti (Cavallo e i due coniugi); cosicché, anche eventuali considerazioni su Romaniello e il marito, quand’anche vi fossero state, si inquadrerebbero nel dovere di informativa, e non nella calunnia, poiché ciò che si scrive sul giornale non equivale per niente alla denuncia calunniosa, che, ripeto, è tale solo se direttamente sporta agli inquirenti.


Nel nostro caso, i giornalisti si sono riportati integralmente al dischetto, sicché ogni loro ulteriore considerazione, quand’anche fosse stata proposta nella segnalazione depositata in Procura, cesserebbe di avere valore autonomo, poiché è stata immediatamente fornita la fonte donde tali considerazioni nascevano: ossia il dischetto con le parole esatte proferite dai coniugi. Tutto il resto, e cioè gli articoli sul giornale, rientrano concettualmente nel diritto di critica, cronaca e dovere d’informare.


In altri termini:
a) i due giornalisti si sono limitati a parlare di patto scellerato, complotto, ritorsione mediatica; e tali considerazioni, se non scriminate dalla legge allora vigente o dall’attuale Testo unico del dovere dei giornalisti, è diffamazione, non calunnia;
b) hanno detto che il complotto avveniva ai danni dell’azienda ospedaliera poiché venivano accusati tre medici di omicidio colposo (e i tre sono stati poi tutti effettivamente assolti);
c) hanno scritto che il marito era in cerca di favori illeciti; ma ciò sarebbe stata, al più, diffamazione, non calunnia.
d) hanno detto che la moglie aiutava nella carriera il marito, ma ciò sarebbe stata, al più, diffamazione, non calunnia.
Si imputa, poi, di aver manipolato il dischetto; ma l’addebito, oltre ad essere sfornito di prova, non costituisce calunnia, poiché non sono state soppresse prove di innocenza, né introdotte prove di colpevolezza.


In definitiva, i due professionisti si sono limitati a fornire alla Procura di Potenza il dischetto e hanno poi commentato ciò che risultava dallo stesso, senza nulla aggiungere o sopprimere. E il che rientra pienamente nelle facoltà, anzi nel dovere di cronaca, e in ogni caso fa parte del concetto di diffamazione, e non di calunnia, poiché non vengono addebitati specifici reati ai due coniugi, bensì vengono solo censurati comportamenti (senza, peraltro, sporgere querela: facoltà della quale, per giunta, Amato e Marino non erano titolari).


L’ultima riflessione va all’imputazione per calunnia dell’ingegner Giuseppe (Pino) Iuele (che è stato insignito del Premio Livatino). Ebbene, rilevo che essa sarebbe consistita nell’aver negato di conoscere già prima alcuni fatti, e quindi di aver posposto la loro conoscenza in tempo utile per la tempestività della querela (tre mesi).
Orbene, in tali casi, la sanzione è l’improcedibilità per tardività della querela, non certo la calunnia. Insomma, tale delitto si consuma se si accusa taluno di un reato non commesso o commesso da altri; ma, quando ci si limita a spostare in avanti la data del commesso reato, non può mai parlarsi di calunnia: e la giurisprudenza sul punto è quanto mai pacifica, concorde, assodata, incontroversa.


Cosicché, ammesso, ma mai concesso, che effettivamente l’ingegner Iuele abbia “spostato” in avanti la data di conoscenza dei fatti, la sanzione è l’improcedibilità per tardività della querela, non la calunnia! Si aggiunge che il professionista è stato del tutto assolto per le critiche mosse su facebook.
In conclusione, sono fiducioso circa l’esito dei procedimenti; infatti, immaginando ciò che avverrà nelle aule di udienza, posso concludere con il Poeta: «Poca favilla gran fiamma seconda:/ certo di retro a me con miglior voci/ si pregherà perché Dike risponda».
 *giurista

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