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Il lavoro negli ospedali per curare i malati di coronavirus

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OGNI volta che mi affaccio alla finestra, appena sveglio, mi innamoro di quello che vedo. È uno spettacolo che mi incanta: gli alberi che continuano il loro mestiere, il ritorno delle stagioni. Anche l’erba si sta facendo più bella, l’aria è pulita, il cielo più sicuro del solito. La città è zitta, si sente qualche uccello sui rami, un passante che lontano va verso chissà dove, le mani si bagnano di aria e vorrebbero afferrare la vita lì fuori per trattenerla più a lungo. Questo nuovo giorno di aprile ha il sapore dell’arancia spremuta, del caffè che ribolle lento, della marmellata distesa sulle fette biscottate. C’è un desiderio di libertà nuova in giorni così, che non conosce mare dove approdare. Il mare, così lontano, come una terra promessa e mai mantenuta, come una parola sospesa che non vuole cadere sulla pagina bianca dove lo scrittore raccoglie fotografie traslucide e malinconiche. C’è poesia nella paura? Quale parola consola il dolore? Qual è la lingua di questo tempo? I balconi non cantano più, si contano solo numeri che sono vite, anime, storie, lacrime, sentimenti, famiglie. Bisogna resistere, certo, e non abbattersi. E’ tutta una vita che resistiamo, che lottiamo, che non facciamo altro che guardare in avanti lì dove sono i nostri passi. Ma in questo tempo, tra le pieghe di questi giorni, è la memoria che amplifica questo eterno presente. Perché ricordare è importante, è fondamentale per generare futuro, ovunque sia finito tutto quel futuro che avevamo solo davanti.

Sotto le stelle di questa lunghissima notte ci facciamo compagnia con gli sguardi, con i saluti da lontano che sono segnali di solidarietà come in una battaglia che avvicina, rende tutti uguali, ma timorosi. Perché la vita e la morte hanno questo potere: ristabiliscono l’ordine delle cose, danno il giusto valore alle parole, mostrano la verità senza appello. Pensare al futuro vuol dire avere una prospettiva di questa nuova normalità. Ma chi lo sa come sarà il tempo nuovo? Si, questo virus sarà qui ancora per lungo tempo, dobbiamo imparare a conviverci senza mai diventare intimi, sodali. Cammina sulle nostre gambe, cerca chi può moltiplicarlo ancora e ancora. La pandemia sta costringendo la specie umana – e il nostro cervello – a fare il contrario di quello che abbiamo imparato a fare nel corso di millenni per sopravvivere.

James Coan, neuroscienziato dell’Università della Virginia, ha confrontato il modo in cui il nostro cervello funziona in periodi di stress con quello di una salamandra. “Una salamandra vuole un posto fresco, buio e umido nelle Blue Ridge Mountains. È adattato all’ambiente. Sa dove trovare cibo lì. Se una salamandra esce da sotto la roccia verso il sole in una calda giornata asciutta, vivrà una situazione di stress e vorrà tornare sotto la roccia”, ha detto Coan. “Il dilemma per noi oggi è che siamo tutti salamandre fuori al sole, a cui hanno detto di non tornare sotto la roccia perché quell’habitat è anche la nicchia ambientale di questo virus”.

Non so se ha un senso ormai chiedersi quando tornerà la nostra normalità, penso invece che sia più giusto oggi costruire la nuova normalità. Per tornare a lavorare, produrre, creare, generare profitto, innovare, essere, avere, vivere. E non è nemmeno poi così importante, adesso, domandarsi se saremo peggio o meglio quando tutto sarà finito: la cosa più importante è che tutto finisca nel modo giusto, anche se non sarà subito. Ogni giorno c’è una uova lezione da trarre in questa esperienza di vita senza libertà. Ogni giorno, dentrondi noi, avviene qualcosa di nuovo, si fa un passo, il movimento cambia. Non sono tutti uguali i giorni della quarantena.

Dentro la tasca di ogni mattino mettiamo al riparo le nostre speranze e ci armiamo di guanti e mascherine per non soccombere all’invisibile. Nella mente di ognuno di noi scorrono le immagini dei malati, dei medici, degli infermieri, delle bare e dei parenti che non possono piangere i propri defunti. Cresce la rabbia, giustamente, ma anche la consapevolezza che questa non è una battaglia vinta anche se i numeri ci indicano finalmente che la strada che abbiamo iniziato a percorrere non è ancora finita. Sappiamo tutti che dipende solo da noi, lo sanno anche quelli che pensano di essere immuni, più forti del virus, più furbi degli altri. Eppure costoro sono gli stessi che urlano forte contro le presunte ingiustizie, che mettono alla berlina presunti responsabili ma, allo stesso tempo, si autoassolvono da ogni responsabilità perché la colpa, si sa, è sempre roba degli altri.

Vogliamo tutti verità, cerchiamo giustizia lì dove sembra più buio e il buio adesso è ancora più pesto, ma dobbiamo sforzarci di essere più giusti, di saper dire il vero, di guardare in faccia alla pandemia, riconoscerla, e di radicare il dolore che ne deriva in questa nostra terra. Ma dobbiamo ricordare tutto, queste ore, i desideri mancati, la velocità del contagio, la debolezza umana, l’importanza delle competenze, l’assoluta inconsistenza dei professionisti dell’odio, le frustrazioni degli eterni incompiuti che vomitano sui socialnetwork, l’inutilità delle parole di certa politica miope ed autoreferenziale che non sa più vedere, non vuole guardare, non osa più andare oltre sé stessa. Magari anche la politica cambierà, e il giornalismo, o magari si farà muta la ferocia della televisione che fa di tutto una grande discarica di spazzatura. E’ una speranza, non una certezza, perché solo questo sappiamo: ciò che siamo e ciò che non vogliamo.

Qualche giorno fa, non ricordo bene quando, ho letto un’intervista all’architetto Renzo Piano. Profonda, mai banale, che apre spazi di luce e movimenti di bellezza. C’è un passaggio che mi ha colpito molto, quando parla del tempio di Ise e dell’importanza di questa opera: «Viene distrutto e rifatto ogni vent’anni. In Oriente l’eternità non è costruire per sempre, ma di continuo. I giovani arrivano al tempio a vent’anni, vedono come si fa, a quaranta lo ricostruiscono, poi rimangono a spiegare ai ventenni. È una buona metafora della vita: prima impari, poi fai, quindi insegni. Sono i giovani che salveranno la terra. I giovani sono i messaggi che mandiamo a un mondo che non vedremo mai. Non sono loro a salire sulle nostre spalle, siamo noi a salire sulle loro, per intravedere le cose che non potremo vivere».

Rinascere, rifiorire, ripartire, ricostruire. Ricordare di essere stati.

Sergio Ragone

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