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Francesco Magro

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CATANZARO – Si rivolge al pronto soccorso di Rho per un dolore a una gamba e ne esce paralizzato a vita. E questo perché la corretta diagnosi è arrivata troppo in ritardo e l’intervento chirurgico soltanto dopo più di due settimane dal ricovero. Il tribunale riconosce l’errore dei medici, condannando l’azienda ospedaliera lombarda a un maxirisarcimento di quasi 680mila euro, ma allo stesso tempo non concede al paziente il danno specifico da incapacità lavorativa, nonostante l’attuale invalidità del 100%. In altre parole, per i giudici potrebbe ancora continuare a lavorare.

È una storia di quelle che non si ha mai piacere a raccontare quella di Francesco Magro, 52enne originario di Lamezia, ma residente a Catanzaro Lido, padre di 5 figli. Costretto oggi su una sedia a rotelle per una serie palese di errori compiuta da quanti avrebbero potuto e dovuto salvaguardare la sua salute. Un’errata diagnosi iniziale, il mancato trasferimento a un’Unità di Neurochirurgia e il ritardo nell’attuare l’intervento necessario per la patologia diagnosticata.

Questi gli elementi che hanno indotto il giudice della prima sezione civile del Tribunale Ordinario di Milano, Martina Flamini, a condannare in primo grado la già azienda ospedaliera “Salvini” di Rho (oggi Asst Rhodense), al cui Pronto Soccorso Magro (impiegato in un’azienda che si occupa di intercettazioni ambientali per conto della Procura della Repubblica), trovandosi a Milano per lavoro, si rivolse in quel lontano 17 gennaio 2009 per un forte dolore alla parte bassa della schiena e alla gamba. La prima diagnosi fu di “lombosciatalgia e ipostenia agli arti inferiori” e i medici disposero il ricovero in Ortopedia. Il paziente fu poi sottoposto a una Tac che evidenziò una complicazione a livello della colonna vertebrale sulla quale era necessario intervenire chirurgicamente.

L’operazione fu fissata prima al 24 gennaio, poi al 27. E soltanto il giorno prima dell’intervento i medici dell’U.O. di Ortopedia pensarono di richiedere un consulto alla U.O. di Neurochirurgia del vicino ospedale di Legnano, dove Magro fu temporaneamente trasferito. L’esame eseguito rilevò la sindrome da cauda equina, una pericolosa condizione neurologica causata da una lesione delle radici dei nervi spinali localizzate nel canale vertebrale. Ritornato a Rho, Magro approdò in sala operatoria soltanto il 3 febbraio. Alla dimissione, la diagnosi fu terribile: “paraparesi in esiti di ernia discale”. In altre parole, l’uomo hs subito la perdita parziale della capacità motoria di entrambi gli arti e da allora è costretto su una sedia a rotelle.

La causa e la sentenza

Difeso dall’avvocato Bruno Rondanini, che si è avvalso delle consulenze di medici e neurochirurghi d’alto rango, Magro ha fatto causa all’Azienda Ospedaliera di Rho. Tutto l’impianto difensivo allestito da Rondanini ruota intorno al fatto che «le linee guida dell’Istituto Superiore della sanità prevedono in casi di sindrome da cauda equina, che il paziente venga sottoposto a intervento chirurgico entro le 24 ore e non oltre le 48 dall’insorgenza dei sintomi. Mentre in questo caso si attesero 14 giorni». La giudice Flamini, specializzata in materia, con la sentenza dello scorso 8 maggio, ha riconosciuto la responsabilità della struttura e dei medici, condannando l’Asst Rhodense al pagamento di una somma complessiva di 680mila euro (comprese le spese di lite) al Magro, alla convivente e ai 5 figli. Si tratta del risarcimento più elevato stabilito in Italia per un caso del genere.

Gli aspetti controversi

Nonostante ci sia soddisfazione per la condanna, dall’altro verso alcuni punti della sentenza non convincono e, anzi, appaiono incomprensibili. Tanto che, annuncia il legale «ricorrerò in appello, chiedendo altri 800mila euro per aspetti sui quali il giudice e il consulente tecnico d’ufficio hanno sorvolato nello stabilire il risarcimento”. Il giudice, in primo luogo, ha stabilito che anche se l’operazione fosse stata eseguita entro le 48 ore previste, il paziente avrebbe comunque rischiato di rimanere paralizzato. Per cui, il danno causato all’uomo viene considerato “ridotto” di quel 20% che avrebbe potuto esserci anche se si fosse intervenuti tempestivamente.

«Tale valutazione – spiega l’avvocato Rondanini – è priva di fondamento. C’è una precedente sentenza della Cassazione su un caso simile che stabilisce come il criterio di valutazione del danno non può essere quello statistico, ma deve essere verificato considerando gli elementi di conferma disponibili nel caso concreto». Altro aspetto non accettato il risarcimento stabilito per i figli (dai 23mila ai 46mila euro) e ritenuto «irrisorio, considerato il fatto che i bimbi, alcuni dei quali sono ancora minorenni ed erano molto piccoli all’epoca dei fatti, sono stati privati della gioia di correre e giocare con il loro papà». Si arriva, poi, agli altri due aspetti della sentenza particolarmente contrastanti.

«La giudice – spiega Rondanini – non ha riconosciuto il danno specifico da capacità lavorativa, nonostante la documentazione prodotta (il certificato Inps di invalidità civile e relativo accompagnamento, non revisionabile) e nonostante le leggi in materia statuiscano che l’invalidità al 100% determina l’impossibilità di svolgere alcuna attività lavorativa». Per finire al fatto che la sentenza riporta tutte le gravi menomazioni, ma omette il danno emergente futuro e più precisamente l’assistenza di una terza persona di cui Magro avrà bisogno a vita per 6/7 ore al giorno.

«Addirittura – spiega il legale – si legge che il Magro non è stato in grado di documentare le spese per il cosiddetto presidio sanitario, ossia l’abbattimento delle barriere architettoniche. Peccato che agli atti risulta depositata una perizia giurata. Non vi è chi non veda – conclude l’avvocato Rondanini – la gravità nel pubblicare una sentenza dimenticandosi gli oneri sanitari futuri che possono rendere più agevole la vita a persone che anno subito delle menomazioni così gravi».

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