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COSENZA – È sfuggito alla giustizia diciannove mesi fa, e da allora si è reso invisibile, riuscendo a mantenersi tale fino ad oggi. Questo fa di Valerio Salvatore Crivello, 42 anni, uno dei pochi latitanti ancora in circolazione in provincia di Cosenza.

Noto con il soprannome “il palermitano”, l’11 novembre del 2020 è stato condannato in via definitiva all’ergastolo nell’ambito del maxiprocesso “Tela del ragno”. La notizia lo ha raggiunto a casa sua, in provincia di Treviso, località in cui si era trasferito diversi anni prima, al seguito della famiglia, entrando poi nei Lagunari. In una vita precedente, però, Crivello avrebbe fatto parte del clan di ‘ndrangheta guidato a Luciano Martello e, per questo motivo, era sospettato di aver partecipato, nel 2003, all’omicidio di Pietro Serpa, esponente del gruppo contrapposto. Anche lui, dunque, nel 2013 finisce nella “tela” della Dda di Catanzaro che, in quel periodo, indaga su svariati omicidi di mafia commessi sulla costa tirrenica a partire dagli anni Settanta e fino ai primi del nuovo millennio.

Crivello finisce in carcere insieme a decine di persone, e dopo un periodo trascorso ai domiciliari, torna in cella a seguito della pronuncia della sentenza d’Appello dal contenuto per lui poco rassicurante: ergastolo. Riesce a ottenere nuovamente la concessione della detenzione domestica, stavolta con il braccialetto elettronico, e così a novembre del 2020, attende a Treviso la pronuncia del verdetto definitivo che lo riguarda. Il giudizio di colpevolezza non muta, ragion per cui per lui si profila un ritorno dietro le sbarre, stavolta per un viaggio di sola andata. Non sarà così.

Quando i carabinieri si presentano al suo domicilio per eseguire la sentenza, di lui non c’è più traccia. Il braccialetto elettronico che portava alla caviglia viene rinvenuto, segato a metà, nella campagna veneta. Se n’è sbarazzato per dare inizio al suo terzo cambio di pelle, per diventare un latitante. La notizia della sua fuga è pressoché inedita e non sappiamo quali piste stiano seguendo gli investigatori per tentare di rintracciarlo.

All’epoca, decisive per la sua condanna furono le dichiarazioni dei pentiti Ulisse e Giuliano Serpa nonché quelle di un ragazzo che si trovava in compagnia della vittima al momento dell’agguato. Quest’ultimo, in un primo momento, disse di non aver visto in volto i sicari poiché muniti di passamontagna, ma durante il processo cambiò versione puntando il dito proprio contro Crivello e contro Gennaro Ditto, altro esponente della mala paolana con cui “il palermitano” faceva coppia fissa.

Sempre i pentiti, raccontano anche di un tentativo di omicidio ordito nei suoi confronti, una vendetta per la sua partecipazione al delitto Serpa. In quel caso sarebbe stata Nella Serpa, sorella della vittima, a decretarne la condanna a morte, sentenza poi non eseguita perché nel giorno stabilito, Crivello si trovava in compagnia di suo figlio.

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