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Viale Parco a Cosenza

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COSENZA – Serve camminare a capo chino lungo il tratto che separa le vecchie cupole geodetiche dalla piscina comunale sul viale Magna Grecia di Cosenza. Fingersi un botanico del marciapiede, in un posto che nulla ha di poetico. Come tanti altri delle nostre periferie. A capo chino ad evitare siringhe, ricomparse sparute qua e là, amore tossico mai andato in disuso e appena dopo essersi lasciati alle spalle la traccia di pista ciclabile progettata senza alcun imbarazzo nel bel mezzo della ormai storica discarica della vecchia zona fiera arricchita dal percolato a vista. Dopo poche centinaia di metri, dove il torrente senza argini allaga periodicamente la sede stradale, il lungo viale termina e la pista ciclabile si interrompe bruscamente, lo sguardo ricade sulla rotonda che funge da spartiacque tra il territorio di Rende e il viale Cosmai cittadino. Il passo rallenta come il cuore e quasi in ginocchio osservi il piccolo altarino distrutto un anno fa e ricostruito da mani amorevoli che ricorda la vita e la morte di due ragazzi ventenni, entrambi di nome Salvatore, che persero la vita in maniera tragica all’alba di un giornata di ottobre senza che nessun giudice ci abbia detto il perché. Ci vorrebbe un angelo, forse. Il cammino riprende, tra i rumori del traffico direzione parco Green e pensando ai due ragazzi in testa risuona come una cantilena l’elogio del bambino di Handke “quando il bambino era bambino lanciava contro un albero un bastone come fosse una lancia che ancora continua a vibrare”.

Alla fine del parco, svolti a destra e imbocchi il viale parco o viale Mancini che dir si voglia, tre chilometri di strada paradigma di tutte le contraddizioni di questa città. Nelle intenzioni, il Passeig de Gracia di Barcellona e la K street di Washington dovevano esserne i modelli progettuali di riferimento di metà anni ’90, oggi è invece una sagoma informe che confonde i sensi. Ma la musica che accompagna ogni buon camminatore dotato di inseparabili auricolari si interrompe davanti al carcere che incontri dopo aver percorso poche centinaia di metri. Carcere, per favore, non casa circondariale. Davanti la lunga cancellata verde c’è un gruppetto di persone in attesa per i colloqui. Intorno è tutto banalmente normale. Il supermercato, la scuola calcio, i nuovi palazzi residenziali che si affacciano finanche nell’area interna del carcere. Mentre il traffico sul viale scorre lentamente, osservi i padiglioni con le sbarre alle finestre. Negli ultimi venti anni in Italia, in carcere, ci sono stati 1200 suicidi. Il carcere è una barbarie inutile.

D’incanto pensi ad Amadou Coulibally, ventenne del Mali, in carcere per una rissa avvenuta in un centro di accoglienza. Nel maggio scorso tentò una disperata fuga. “Condannato con fine pena 20 maggio 2023, è evaso dai cortili passeggi mentre fruiva delle attività in comune, intorno alle 9:45 di oggi” recitava con stile ottocentesco il comunicato delle forze dell’ordine. Amadou fu ripreso in serata nei pressi di Piazza Valdesi, porta della vecchia città. Spero sia libero e viva una vita meno disperata.

Il corpo centrale del viale, un tempo occupato dai binari del vecchio tracciato ferroviario, è dedicato ai pedoni, ma si interrompe bruscamente a metà percorso dove si incrocia la sopraelevata. Il cartello annuncia i lavori per la metro che non c’è. Da lì inizia un cantiere infinito: il Parco del Benessere, lo chiameranno. Un luogo delle meraviglie, dice il sindaco. Ma nulla è certo su questa lunga strada che doveva essere boulevard, ma che sin dalla sua realizzazione ha vissuto ferite continue. Simboliche e non solo furono le voragini e le crepe comparse a soli due anni dalla inaugurazione che obbligò alla chiusura dell’arteria in diverse occasioni. Lavori fatti male, uso di materiali scadenti, collaudi farlocchi, rifiuti e carcasse d’auto utilizzati come riempimento e tutto l’armamentario solito di una gara aggiudicata con il ribasso del 36%. Patteggiamenti ed intervenute prescrizioni misero fine alla storia giudiziaria. E poi la telenovela della metro che non c’è. Diatribe infinite tra comune e regione. Annunci e contro annunci, cambiamenti di programma. Chiusura per lavori di parte del viale senza la presenza di un progetto esecutivo. Comitati no metro e ambientalisti a difesa dell’integrità del viale dimentichi che era diventato solo una strada di percorrenza veloce invasa da migliaia di autovetture al giorno. L’unica cosa certa è l’enorme speculazione edilizia che si è sviluppata ai suoi lati. I più attenti ricordano come i consigli comunali e gli assessorati all’urbanistica regionali dell’epoca permisero le modifiche delle aree destinate a zone verdi e parcheggi, rendendoli funzionali alle richieste dei costruttori ben rappresentati nell’allora Assindustria locale. Si costruì sin dal bordo strada e l’interconnessione con i quartieri popolari di Via Popilia, tanto demagogicamente declamata, ma che non interessava nessuno, rimase solo sulla carta. Non c’erano più i binari a dividere ma un bel muro di palazzi; spesso, oltre che semivuoti, anche più brutti delle umili case popolari dei lotti popiliani.

Le gambe iniziano ad appesantirsi, ma trovano naturale accoglienza nell’unica area residuale che ha resistito al sacco, quella dell’ex deposito delle ferrovie dello Stato, dove nel corso degli anni ha abitato molto associazionismo cittadino. I capannoni sono a pezzi, ma è sabato e c’è un brulicare di persone. Incroci il mercatino dei gruppi di acquisto solidali. Buon cibo e bella gente.

Il viale, tra deviazioni e marciapiedi divelti, si avvicina al termine e il vecchio tracciato ferroviario ti viene ricordato dalla sbiadita scritta con il nome della città che resiste sul muro screpolato di una casa. A quei tempi avvisava il viaggiatore che stava per arrivare alla vecchia e bella stazione ferroviaria di Cosenza.

Più avanti, pomposamente sopraelevato a dominare il viale, c’è il centro commerciale “Due fiumi” con annesso supermercato e soliti negozi di scarso pregio che trovi dappertutto. Non lascerà sicuramente traccia nella storia di questa città. Nello stesso posto però, quando ancora era solo un cantiere delimitato, la traccia la lasciò, eccome, un indimenticabile concerto di fine luglio del ’98 del Consorzio Suonatori Indipendenti. Quella sera Giovanni Lindo Ferretti, benda sugli occhi, narrò a migliaia di appassionati lo stato di agitazione e l’inquietudine di una generazione.
Si ritorna, bisogna fare il percorso a ritroso ma il ricordo di quella sera si sprigiona potente con la musica che mi accompagna e una strofa che batte in testa:
Per quello che ho visto,
Per quello che ho sentito
Per sconcertante necessità
Ciò che deve accadere accade

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