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Luca Palamara

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COSENZA – I giochi di ruolo fra toghe fotografati dall’inchiesta di Perugia non riguardavano solo il Csm, ma anche l’Associazione nazionale magistrati. Il cliché è quello di sempre: tentativi di scalate, lotte interne di potere e per il potere nelle quali, ancora una volta, un ruolo da protagonista è assegnato ai calabresi. Il 24 marzo del 2018, infatti, c’è da eleggere il nuovo presidente dell’Anm. Pochi giorni prima gli ambienti giudiziari sono in fibrillazione per quell’appuntamento che fa il paio con un altro snodo cruciale: il rinnovo del Consiglio superiore della magistratura in programma a luglio dello stesso anno.

Due eventi importanti a distanza di quattro mesi l’uno dall’altro; abbastanza per far sì che, alla vigilia del primo voto, il telefono di Luca Palamara trilla all’impazzata. Il 18 marzo, il suo cellulare è inondato dai messaggi di Marco Mancinetti, giudice a Viterbo, tra i registi dell’operazione che, di lì a poco, porterà il cosentino Francesco Minisci, pubblico ministero nella Capitale, alla guida del sindacato delle toghe. Quella strategia targata “Unicost”, la corrente di cui è leader Palamara, prevede che lo stesso Mancinetti, tre mesi dopo, diventi membro del Consiglio superiore della magistratura, ma quel 18 marzo, gli equilibri sottilissimi che sovrintendono alla buona riuscita del disegno sono messi in crisi da un altro cosentino, Massimo Forciniti. Quest’ultimo, membro in carica del Csm e ormai in scadenza di mandato, avanza delle pretese sulla composizione della giunta di Anm. Chiede un posto per Antonio Saraco, consigliere di Corte d’Appello a Catanzaro, ma in base agli accordi stipulati da Mancinetti le caselle sono già tutte occupate. Forciniti insiste, spiegando che i catanzaresi rivendicano la presenza in giunta dopo i passi indietro operati in favore di altri distretti e a quel punto il magistrato viterbese la prende malissimo, tanto da esternare il proprio disappunto a Palamara.

«Mi ricatta sulla vicenda di Saraco che non entra in giunta. Mi ha rotto il cazzo», scrive riferendosi a Forciniti. Il capocorrente tenta di minimizzare, riconducendo il tutto alla «solita rivalità tra calabresi», ma il suo interlocutore non vuole sentire ragioni. Forciniti, infatti, sarà uno dei suoi grandi elettori al Csm visto che è in grado di raccogliere «250 voti» tra i magistrati di Catanzaro e Salerno, ma quattro anni di permanenza in Consiglio lo hanno reso «ancora più forte» al punto da poter «blindare» anche l’elezione di un suo consigliere di fiducia. Mancinetti imputa proprio a Palamara l’ascesa politica del collega – «Dopo quello che ha avuto da te in questo Csm mi scrive quel che mi ha scritto?» – e gli rinfaccia un errore del passato: non aver creato, come da lui auspicato, un’asse con i distretti di Bari e Palermo, facendo così in modo che «le carte buone» finissero in mano «a Catanzaro e Salerno, quindi in mano a Forciniti».

Palamara raccoglie lo sfogo e prova ad ammansire Mancinetti – «Ciccino, stai bono» – che, nel frattempo, minaccia il ritiro di Minisci dalla corsa per la poltrona dell’Anm. Nel giro di un quarto d’ora, il capocorrente opera le mosse utili per uscire dall’impasse, tra cui anche l’invio di un sms di rimprovero a Forciniti per il problema creato con Mancinetti. Sei giorni dopo, Francesco Minisci diventa presidente dell’Associazione nazionale magistrati e nella giunta trova posto anche Antonio Saraco. Passa un quadrimestre e il 9 luglio, Marco Mancinetti entra a far parte ufficialmente del Csm con 722 voti che fanno di lui il primo degli eletti fra i magistrati con funzioni giudicanti di merito.

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