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Il pentito Liperoti

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CUTRO (CROTONE) – Il pericolo numero uno per la super cosca Grande Aracri sarebbe quel ragazzino scampato all’agguato in cui morì suo nonno Antonio Dragone, assassinato nel maggio 2004 da un commando armato di bazooka, «graziato perché troppo giovane»: perché perfino la “provincia” di ‘ndrangheta che comanda su mezza Calabria e parte dell’Emilia, della Lombardia e del Veneto temeva la riorganizzazione delle altre famiglie e le vendette. A partire da quella di Antonio Ciampà, l’ex ragazzino che oggi forse è salvo perché in carcere per un omicidio a cui partecipò da minorenne, quello di Salvatore Blasco, e della sua famiglia: «in accordo con i papaniciari di Mico Megna e i Mannolo stanno da tempo meditando di scalzare il potere dei Grande Aracri».

Parola del pentito Giuseppe Liperoti, le cui rivelazioni, agli atti dell’inchiesta “Thomas”, gettano luce sulla ridefinizione degli equilibri mafiosi nel territorio. Equilibri piuttosto delicati se, qualora fosse riscontrato il racconto del collaboratore di giustizia, suo zio Domenico Grande Aracri, l’avvocato fratello del boss Nicolino, convocò a casa sua uno dei suoi parenti, tra i pezzi grossi del clan, per lo “scompiglio” che avrebbe creato una presunta relazione extraconiugale con una componente della famiglia Ciampà. Il presunto responsabile dello scompiglio, durante le liti che ne seguirono, «minacciò con una pistola, sparando, alcuni membri della famiglia Ciampà».

L’avvocato avrebbe pertanto ordinato proprio a Liperoti e al fratello Antonio Grande Aracri di portare l’irruento al suo cospetto. «Lo malmenò e ci disse che non avremmo dovuto creare problemi con i Ciampà di via Nazionale». Trattavasi di «famiglia alleata» e l’avvocato non voleva che «questo comportamento potesse minare una storica alleanza e i due ceppi familiari dei Ciampà (ci sono anche quelli di contrada Scarazze, ndr) potessero riunirsi contro i Grande Aracri». Insomma, sarebbe un dead man walking quell’ex ragazzino, oggi poco più che trentenne, ma allora, quando fuggì, con negli occhi lo scempio, dall’auto blindata Lancia “K2” su cui viaggiava il nonno, tra le collinette di contrada Vattiato che Pasolini ribattezzò “dune gialle”, era «troppo giovane e si decise di posticipare la sua eliminazione per eseguirla in maniera meno eclatante, perché erano pendenti troppi processi per la mia famiglia», narra Liperoti.

Un piano poi “tralasciato” ma «Antonio, il fratello Giuseppe e lo zio Salvatore Arabia – sempre per il pentito – stanno organizzando la vendetta delle persone assassinate in passato, grazie a questo fatto ho percepito l’intenzione dei Ciampà di uccidermi». Per esempio aveva notato l’auto di Ciampà vicino all’abitazione di una persona che traffica in armi in Germania, per cui la pax sarebbe stata soltanto fittizia. Ma i timori di una ripresa degli anni di piombo, dopo un periodo di relativo di quieto vivere, sono stati acuiti dai rinvenimenti di arsenali di qualche anno fa. «In merito a Ciampà posso riferire che hanno fatto un furto di armi in una casa in località Banda, poi sequestrate dalle forze di polizia», armi peraltro riconducibili a un appartenente alle forze dell’ordine e rinvenute dalla Guardia di finanza, lo stesso reparto investigativo che ora aggredisce i colletti bianchi della super cosca. Ma i dead man walking erano tanti, e nell’elenco era finito anche il solito Romolo Villirilo, uno dei capi della filiale emiliana del clan che il boss riteneva responsabile di mala gestio dei proventi, e Salvatore Arabia, che dopo un fallito agguato nel 2000 venne poi ucciso tre anni dopo. Anche Liperoti parla di colletti bianchi.

Come il commercialista Salvatore Minervino, già balzato nell’inchiesta Aemilia e indicato come «molto vicino alla nostra famiglia», titolare di un’azienda di grondaie «a cui nessuno produce danneggiamenti o quant’altro in virtù della nostra protezione», che per esempio avrebbe sconsigliato Giovanni Abramo, genero del boss, di usare capannoni per un’attività commerciale in quanto avrebbe attirato sospetti, e di un dipendente della Motorizzazione civile di Catanzaro, Salvatore Chiarelli, «molto vicino alle cosche crotonesi» che avrebbe «regolarizzato diversi mezzi rubati per conto di mio suocero Antonio Grande Aracri e di Michele Bolognino».

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