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CUTRO – “Thor”, “lo svizzero”, “Gigi D’Alessio”. Sono i nomignoli attribuiti dal presunto boss Alfonso Mannolo ai custodi del tesoretto – 300mila euro in contanti – che fece ritrovare un paio d’anni fa il figlio Dante, divenuto collaboratore di giustizia. Aveva la “memoria corta”, il pentito, come ammise, e una notte gli si riaccese la lampadina, frugando fra i ricordi, guarda caso dopo la richiesta di condanna a 12 anni, senza nessun’attenuante per la collaborazione con la giustizia.

C’è anche quel verbale d’interrogatorio, reso dinanzi al pm Antimafia Domenico Guarascio, nelle carte dell’inchiesta sul patrimonio dei vertici del clan di San Leonardo di Cutro al quale i finanzieri del Gico di Catanzaro hanno sequestrato beni per 7,5 milioni di euro. Destinatari della misura di prevenzione Alfonso Mannolo e il figlio Remo, già condannati a 30 anni di reclusione ciascuno nel processo Malapianta, scaturito dall’inchiesta condotta dalla Guardia di finanza di Crotone che portò a una maxi retata nel maggio 2019. Il sequestro è peraltro scattato proprio nell’imminenza della sentenza d’appello nel filone processuale del rito abbreviato.

In particolare, ad Alfonso Mannolo sono stati tolti due terreni, di cui uno nel Veronese, il fabbricato in cui abitava, due ditte, una di poste private che era intestata alla nipote Daniela e una esercente l’attività di coltivazione di cereali, tre auto. Al figlio Remo, invece, tre immobili, tra cui una villa, un’auto e tre complessi aziendali. Singolare, a proposito della sperequazione tra redditi dichiarati e tenore di vita, il fatto che il presunto capobastone abbia comunicato la sua situazione all’Anagrafe tributaria soltanto tra il 1985 e il 1990 e negli anni 2012 e 2013.

Addirittura nel 1985 il suo reddito d’impresa era di appena 71,78 euro, e nessun reddito dichiarò nell’anno successivo. Redditi irrisori, riconducibili a una pensione d’invalidità, quelli relativi agli altri anni censiti. Proprio gli elementi raccolti nell’ambito dell’inchiesta che ha già portato a due processoni sono stati valorizzati dal Tribunale di Catanzaro per affermare che «il patriarca Alfonso Mannolo, oltre a essere il capo indiscusso dell’omonima cosca mafiosa operante a San Leonardo di Cutro, è considerato una delle figure delinquenziali di riferimento in ambito provinciale, in questo supportato dai figli Remo e Dante, reali dominus delle attività illecite della cosca». Una cosca le cui specializzazioni erano le estorsioni ai villaggi turistici, l’usura, il narcotraffico. Il «dato interessante», osservano i giudici, è che padre e figli e i loro familiari, «pur dichiarando redditi modesti hanno sempre mantenuto un elevato tenore di vita dimostrato dall’acquisto di diversi immobili tra cui tre lussuose ville». Fondamentale l’individuazione di una serie di prestanomi del boss.

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