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Un ghiro

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L’aspetto fiabesco del roditore – grazioso scoiattolino disneyano – non lo ha mai tutelato abbastanza. E neppure le leggi che ne vietano tassativamente la caccia, la cattura e la detenzione.

L’ultima conferma – plateale – pochi giorni fa nelle campagne di Delianuova in provincia di Reggio Calabria. In un’operazione antidroga dei carabinieri, accanto a una piantagione con deposito di marijuana, sono saltate fuori decine di gabbie con ghiri vivi e ben 235 esemplari congelati in un freezer, imbustati e pronti ad essere smerciati (LEGGI). L’ennesimo allevamento-macelleria scoperto non è che la punta dell’iceberg di attività sommersa di dimensioni e fatturati notevoli. Le organizzazioni animaliste stimano che nella sola zona di Guardavalle e altri comuni sulle Serre Joniche vengano catturati 20.000 ghiri all’anno, rivenduti a 5 euro l’uno. Gli acquirenti? Fanatici buongustai che perpetuano millenarie tradizioni gastronomiche che hanno radici nell’Italia romana e prima ancora etrusca (i buongustai usavano glirarii, contenitori di terracotta, per tenere all’ingrasso i ghiri nutrendoli di ghiande e miele). Ma ad alimentare il bracconaggio e l’allevamento dei ghiri è oggi, soprattutto, una categoria molto particolare di gourmet, quella dei boss e degli affiliati alle cosche della ‘Ndrangheta che hanno fatto del consumo di questo roditore selvatico un vero e proprio totem gastronomico.

Il ghiro continua così ad essere obiettivo privilegiato nel mirino dei bracconieri e poi immancabilmente in pentola, perché viene considerato uno dei principali piatti-bandiera dei convivî ‘ndranghetisti, specialmente di cene e pranzi solenni consacrati ad accordi criminali, o a banchetti di gruppo all’interno delle carceri.

Leggermente lessato e rifinito semplicemente alla brace oppure al sugo, come secondo piatto o “di rinforzo” ai maccheroni, “la mangiata” o anche un più modesto assaggio di ghiro, è il suggello ufficiale dei patti importanti.

Ovviamente, a parte il sapore della pietanza (che, dicono, straordinariamente prelibata per delicatezza, gusto ed equilibrio consistenza-grassezza) è il valore simbolico-identitario a prevalere. Il ghiro, insomma, non fa certo parte di una inesistente “dieta” dei mafiosi né di un immaginario regime alimentare ‘ndranghetistico. È, invece, sicuramente uno dei piatti simbolici che sottolineano l’appartenenza alla ‘Ndrangheta. Non si consuma nelle occasioni giornaliere in cui ci si siede a tavola per mangiare ma nelle occasioni collettive, quando si sta a tavola per mangiare e bere insieme.  In momenti di socialità, insomma, in gesti dal forte contenuto sociale e di spessore comunicativo, quando la ‘Ndrangheta “parla” anche attraverso il cibo e tutto quello che ruota intorno alla tavola.

Il ghiro è sempre stato “appartenenza” al mondo dei boschi e quindi una pietanza da “fuorilegge”. Poi in tempi più recenti ha acquistato ulteriore valore proprio perché diventata una selvaggina superprotetta dalla legge. E così s’è rafforzata tra gli affiliati una vera e propria venerazione per questi roditori. Doppiamente proibita la caccia al ghiro perché è specie selvatica protetta (catturare e uccidere questo roditore è reato penale non lieve) e perché viene praticata di notte quando nessuna attività venatoria è consentita.

Boss e affiliati ne fanno un punto di merito, una vanteria che sottolinea spavaldamente l’essere “fuorilegge”, anzi al di sopra della legalità. Tutto ciò vale ancora di più in un ambiente particolare come il carcere, dove il capomafia è ufficialmente qualificato come tale, pur negando assolutamente qualsiasi responsabilità personale. Dietro le sbarre, però, il boss deve dimostrare col comportamento di essere quello che tutti sanno ma che nessuno dice, e la tavola entra in questa commedia. Le vettovaglie di cui, in genere, dispone sono talmente abbondanti che numerosi detenuti, in qualche caso anche il personale, ne beneficiano. Così il mafioso acquisisce meriti e consensi. Cibo e vini diventano ostentazione di ricchezza e potere.

Il ghiro nel piatto, in quest’ottica, finisce col valere più dell’aragosta e del caviale. Non si trova nelle drogherie di lusso e non bastano i soldi per comprarlo. Per procurare i ghiri, e farli addirittura arrivare in carcere, è necessaria una robusta, ramificata ed efficiente catena di attività illegali e criminali. Il piatto, allora, diventa un segnale inequivocabile di potenza e della capacità di superare agevolmente muri, grate, porte blindate e sistemi di sorveglianza.

Sempre a questo scopo recondito boss e “picciotti” hanno esportato anche oltreoceano la loro mania per alcuni “piatti proibiti”. In Paesi come il Canada, dove la legge punisce severamente la somministrazione nei ristoranti di carni di selvaggina da caccia, gli ‘ndranghetisti emigrati in quella parte del mondo sfidano i rigori della legislazione penale e organizzano spavaldamente in pubblici locali pranzi e cene a base dei più ricchi carnieri di cacciagione.

Naturalmente, come ogni medaglia, anche la passione ‘ndranghetista per i ghiri ha il suo lato debole. Gli investigatori, in ossequio al vecchio motto dell’FBI e di Giovanni Falcone “Follow the money/Segui i soldi” hanno imparato a seguire pure i ghiri, chi li cattura e chi li alleva.  Carabinieri a caccia di superlatitanti, in più di un’occasione, sono riusciti così a scoprire boss alla macchia e summit di ‘Ndrangheta. In rifugi e casolari di montagna, a cena a base di ghiri.

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