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Emanuela Anechoum

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6 minuti per la lettura

EMANUELA Anechoum, 33 anni, madre reggina e padre di Casablanca, manager editoriale, cittadina del nuovo mondo, al suo primo libro con edizioni e/o, quelli di Elena Ferrante e dell’Eleganza del riccio, quindi grandi numeri e grandi scommesse. Emanuela Anechoum che venerdì ritroverà allo Scientifico “da Vinci” di Reggio la sua prof Valentina Macheda, ma le piacerebbe rivedere anche l’ex vicepreside Sandro Vitale “un pezzo di cuore”. Che ha sempre voluto scrivere e lavorare nell’editoria, fin da quando frequentava i forum su Harry Potter e si divertiva a riscrivere il finale.

Anechoum come il padre, che arrivò nell’85 in Italia “un grande cantastorie che ama raccontare la sua infanzia in un modo molto più divertente di come ho fatto io nel libro”. Che da oggi sarà in Calabria per presentare “Tangerinn”, il nome di un bar, una copertina con due mandarini tangerini: ibridi come sono le sorelle protagoniste della storia, Mina e Aisha. Del resto anche noi abbiamo le clementine: solo una punta d’amaro, e siamo tutti figli dello stesso albero.

Casablanca, Calabria: è lo stesso Sud?

«Mio padre sostiene di aver detto subito: qui è come a casa. La vera differenza è la religione, ma la cultura dell’accoglienza, l’ospitalità, il valore della famiglia, una certa lentezza ci avvicinano. Più simili a Casablanca che a Milano: ci unisce la cultura mediterranea, che ogni tanto facciamo finta di dimenticare».

Il libro racconta il viaggio mentale e fisico di una figlia, Mina, alla ricerca del padre e delle sue radici. Tutti pensano che sia la sua vita.

«In realtà sono partita dalla mia storia, andando in opposizione ad essa. Ho cominciato a pensare a questo libro ai tempi di Black Lives Matter, al destino spesso segnato degli afrodiscendenti. E ho pensato cosa sarebbe stato di me se non avessi avuto una famiglia blindata che mi ha dato tutto, grazie anche ai sacrifici di mio padre. Oggi i miei genitori gestiscono una palestra. Non sono partita da zero, come i miei personaggi».

Uno di loro dice: «Sono fortunato perché sono vivo». E lei scrive ancora: in quel quartiere l’ambizione era accolta con scherno.

«Invece io ho fatto quello che ho sempre sognato. Sono partita per Milano, cinque anni alla Cattolica e poi il lavoro a Londra. Ma in tutti questi anni, non ho mai perso la voglia di dare un seguito, uno svolgimento ai racconti di mio padre. Mi incuriosiva quel mondo, che del resto è il mio».

Emanuela Anechoum ha parenti a Casablanca?

«Zii, zie, cugine e cugini. Si parla inglese, si comunica su Instagram. Guardiamo le stesse serie tv e leggiamo gli stessi libri. Sally Rooney, Olivia Laing, Elena Ferrante e naturalmente Annie Ernaux. Fiction, autofiction e memoria con voce di donna».

È mai stata a Riace?

«Quel paese è un posto straordinario, e lo era ancora di più ai tempi di Mimmo Lucano sindaco. Ho seguito la sua storia, le sue vicissitudini, sono andata ad ascoltarlo quando è venuto a Roma. Nel bar “Tangerinn” c’è Riace, forse Scilla e Roccella, ma soprattutto ci sono anche quei paesi della jonica dove l’integrazione, le comunità che si mischiano sono una realtà».

A Reggio Emanuela Anechoum ha frequentato gli scout.

«Quelli laici della Cn Gei, amici per sempre, la sede stava nella discesa del Castello. Improprio che la figlia di un musulmano andasse nelle squadriglie della Candelora – come ha fatto mia madre – un gruppo molto più folto».

E fin dall’adolescenza, la passione per la lettura.

«Anche grazie a mia nonna: e insieme ai libri, la possibilità di interagire con i coetanei di tutta Italia, un giacimento di creatività dove ognuno inventava un personaggio, giochi di ruolo e di scrittura».

Anche Stefania Auci ha trovato ispirazione nei Forum.

«Il digitale è il megafono della mia generazione, soprattutto nell’adolescenza: non ci si sente mai a posto nel proprio luogo. La mia Mina nel libro dice: volevo solo dimenticarmi di me. Io sentivo stretta la città, come spesso succede a tutte le latitudini, ma la dimensione virtuale mi permetteva di conoscere coetanei con la mia stessa passione. Per fortuna c’era poi la professoressa Macheda che mi correggeva le poesie. Certo, non mi aspettavo di tornare nel mio Liceo per una presentazione. Da alunna, ricordo di aver seguito un incontro con Diego De Silva. Una specie di cerchio che si chiude».

«Per diventare una donna semplice occorreva molto lavoro». Io nato in Calabria mi ci sono molto ritrovato.

«Non credo sia una questione solo calabrese, magari fotografa il vissuto dei piccoli centri, i luoghi del giudizio, guardare l’altro e vedere quello che fa. Una quantità di regole non scritte, di pretese che penalizza soprattutto le donne. A loro continua ad essere chiesto un certo codice di comportamento».

Non crede che la situazione stia cambiando?

«I diritti sono certificati, ma guardo alle mie amiche che hanno avuto figli. La richiesta è che riescano ad essere mamme come nell’Ottocento, ma che lavorino e facciano carriera. A volte il maschio collabora, ma la responsabilità è tutta sulle loro spalle».

Ma la famiglia resta una specie di totem. E deve essere quadrata.

«Sì, perché tutti gli angoli si guardano, forte e protettiva contro lo sguardo dell’esterno. Ma stare nel proprio angolo non significa avere intimità reciproca, che vuol dire anche scontro. In famiglia si sa solo quello che si dice. Per esempio Mina osserva alcuni comportamenti della madre ma non li capisce. Litiga con la sorella, che ha fatto scelte diverse dalla sua, poi la ritrova».

Perché Emanuela Anechoum è tornata da Londra? La viveva male come Mina?

«In realtà io mi trovavo benissimo, sono tornata a Roma per amore, una scelta controcorrente che mi ha aperto altre possibilità. Per esempio sento la Calabria più vicina».

Però oggi fa un lavoro bellissimo.

«Vendo all’estero i diritti dei libri di e/o: prima di tutto Elena Ferrante, appena tradotto in lingua urdu. Siamo a cinquanta lingue, più o meno. Viaggio molto: i saloni di Francoforte, Londra, Torino, Praga ma anche i meeting con i librai, come Chiara Condò di Tropea, che sarò felice di riincontrare».

C’è una Elena Ferrante pakistana?

«No, ma ci sono tanti scrittori iraniani emergenti. E dalla Tunisia, Amira Ghenim con la sua “Casa dei notabili”».

E il libro di Emanuela Anechoum piace ad Emanuela Anechoum?

(Sorride) «A un certo punto in fase di editing l’ho odiato, mi faceva schifo tutto. Sono eternamente autocritica. Ma grazie al curatore Claudio Ceccarelli ho fatto pace con il testo».

Per una cittadina del mondo come Emanuela Anechoum, cosa significa tornare? La cito: tornare per amore per bellezza per gusto per nostalgia per innocenza per calore per colore. Così senza virgole, nel linguaggio di Instagram.

«Mi sento a casa quando comincio a vedere il mare a sud di Napoli, faccio parte di una generazione che se n’è andata, e questo mi provoca tanta rabbia. Della mia classe, saranno rimaste in città in due o tre. È il modello di società sbagliato che abbiamo voluto. Dove la realizzazione si raggiunge solo con il profitto. C’è questo schematismo per cui va via chi è curioso e resta chi è pigro. Ho letto Vito Teti e mi ci ritrovo: bisogna dare voce e sogni a chi rimane».

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