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Il giorno dell'inaugurazione della fondazione Federica Monteleone

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VIBO VALENTIA – Una situazione che definire kafkiana è un eufemismo. Eppure è ciò che sta avvenendo nella diatriba giudiziaria che contrappone il Comune con la Fondazione “Federica per la vita Onlus” gestita da Mary Sorrentino e Pino Monteleone, genitori della 16enne di Vibo Marina morta per un caso di malasanità nel gennaio del 2007.

Diatriba che ha visto già la conclusione del primo grado di giudizio davanti al magistrato civile che ha condannato la rappresentante legale al pagamento in favore di Palazzo Luigi Razza di una somma che si aggira sui 33mila euro.

Una cifra enorme, frutto di mancati pagamenti per la locazione della struttura che – prima dello sfratto – era ubicata nello stabile in cui un tempo c’era la scuola elementare di Bivona, oggi – nonostante i vari articoli di giornale – ricettacolo di sterpaglie, rovi e immondizia di vario genere (addirittura c’è stato chi è stato sorpreso a cimentarsi nel “lancio del tappeto”).

Contro quella sentenza pronunciata dal Tribunale civile di Vibo, la Fondazione – affidandosi all’avvocato Vincenzo Cantafio – ha proposto Appello contro Palazzo Razza che a sua volta ha deciso di resistere in giudizio e a breve procederà alla nomina del proprio difensore che dovrebbe essere, salvo sorprese, l’avvocato dell’Ente: Maria Stella Paolì.

La vicenda ha la sua origine nel 2012 quando a guidare l’amministrazione comunale era il sindaco Nicola D’Agostino. Comune e fondazione si erano messi d’accordo per un pagamento mensile per l’affitto dei locali ad una somma di 1.000 euro al mese per svolgere servizi sanitari (un prezzo, di per sé, spropositato visto che si tratta di una onlus che eroga servizi primari). Le attività, quindi, iniziano regolarmente e tutto sembra andare a gonfie vele (anche se una parte dei locali inizia a presentare problemi quali ad esempio infiltrazioni d’acqua dal tetto); se non ché, due anni dopo alla Sorrentino arriva una denuncia da parte della Capitaneria di Porto per occupazione del suolo demaniale. In buona sostanza quei locali non ricadevano nella titolarità del Comune – a cui erano stati pagati già due anni di affitto – ma dello Stato.

A fronte di questa scoperta il sodalizio, per il tramite dell’avvocato Cantafio – inviò al Demanio una formale richiesta affinché dirimesse la questione, in modo da sapere a chi legittimamente dovesse essere pagato il canone di locazione, e di conseguenza si procedette a sospendere il pagamento dello stesso nei confronti dell’ente locale. Intervenne, quindi, la Capitaneria di Porto, la quale fatti i dovuti accertamenti sul caso, tramite l’allora Comandante Di Marzio, confermò che tale proprietà risultava essere nella disponibilità del Demanio Marittimo. Da qui, pertanto, nacque il contenzioso giuridico tra la Onlus e Palazzo Razza nonostante il contratto stipulato con l’amministrazione cittadina risulterebbe essere “improprio”, a giudizio non solo dell’associazione ma anche della stessa capitaneria, per come a suo tempo riferito dalla Sorrentino che successivamente si recò presso il demanio regionale della Regione Calabria dove, visionando personalmente le planimetrico il responsabile d’ufficio, poté apprendere che la proprietà dell’immobile risultava essere nel possesso del demanio marittimo.

E se da un lato si evitò – attraverso ricorso accolto – lo sfratto dai locali imposto dall’ente, dall’altro il contratto giunse a conclusione. Tuttavia, la causa giudiziaria fece il proprio corso e si arrivò con la condanna della Fondazione al pagamento di 33mila euro (che la stessa Onlus non è in grado di saldare). Nel giudizio, l’avvocato Cantafio ha rilevato che il canone concessorio è illegittimo in quanto deve andare al Demanio e non al Comune e che la quota, che deve aggirarsi sui 6000 euro l’anno, non può essere decisa da quest’ultimo in via unilaterale. Sempre la difesa ha rilevato che è possibile dare beni demaniali in locazione (come ad esempio al Pennello) ma solo quando si tratta di rapporti tra privati, contrariamente al caso in questione.

Doglianze, queste, esposte con tanto di sentenze apposita della Cassazione, che però non hanno trovato il conforto del magistrato. E adesso si va in Appello.

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