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Il gup distrettuale Claudio Paris

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VIBO VALENTIA – In tutto 851 pagine. Nero su bianco che certifica l’unitarietà della ’ndrangheta vibonese al cui vertice siede il boss Luigi Mancuso. Sono le motivazioni della sentenza del maxiprocesso “Rinascita-Scott” emessa in abbreviato dal gup distrettuale Claudio Paris il 6 novembre 2021 che portò a 70 condanne e 20 assoluzioni (LEGGI).

Un documento storico a livello giudiziario in quanto, come detto, sancisce (anche se solo nel primo grado di giudizio) la presenza di una struttura criminale unitaria al cui vertice c’è colui il quale stava «sul tetto del mondo», per come chiesto dalla Dda di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri che ha coordinato l’indagine dei carabinieri scaturita nel blitz del 19 dicembre del 2019, con 334 arresti e quasi 500 indagati.

La figura del “mammasantissima” Luigi Mancuso

Luigi Mancuso

Ed è proprio sulla figura di Luigi Mancuso che si sofferma il magistrato, evidenziando come la sua, per come riferito dai collaboratori di giustizia, sia il «più carismatico capo di tutta la ’ndrangheta vibonese, probabilmente il più autorevole di tutta le restanti cosche calabresi agli occhi del Crimine di Polsi; ed alle cui leadership devono giocoforza chinarsi tutte le cosche vibonesi», tanto da «essere definito “il Supremo”».

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Il ritorno dello “Zio” Luigi Mancuso

Nelle motivazioni si fa menzione come il ritorno in libertà di Luigi Mancuso, nel 2012, abbia consentito di «sanare quelle frizioni all’interno della famiglia di Limbadi, con un progressivo riavvicinamento tra i diversi gruppi della famiglia; e proprio il ritorno in libertà dello “Zio” ha segnato una nuova epoca per la cosca di Limbadi, come si approfondirà di seguito».

A riprova della «notorietà della sua strategia “pacifista” e del suo ruolo di “Supremo” negli ambienti della criminalità organizzata e della massoneria», il gup Paris menziona « una serie di conversazioni intercettate nel presente procedimento, i cui si parla dell’autorevolezza di dell’imputato, apprezzato sin da giovane per l’atteggiamento non aggressivo e tendente alla mediazione».

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La politica criminale così imposta, attraverso la concordia e il consenso, «produceva effetti inimmaginabili, quali la condivisione, da parte tutti – Mancuso e, in particolare, da parte di Giuseppe Mancuso (il nipote con cui in passato s’erano registrati contrasti) – dei progetti criminali dettati dall’assoggettamento “spontaneo” della popolazione che, perfino, di propria iniziativa andava a pagare le estorsioni direttamente a Luigi Mancuso», per come si esprimeva «Giovanni Giamborino parlando con l’avvocato Giancarlo Pittelli, nella conversazione intercettata il 13 maggio 2017»

In definitiva, rileva ancora il magistrato, dalle indagini condotte nel presente procedimento, emerge «quale sfondo della vita delle associazioni mafiose operative nella provincia vibonese e, venendo alla cosca di Limbadi che ne rappresenta la madre, oltre che, come già accertato in passato, la “Mammasantissima” delle cosche, il ruolo di Luigi Mancuso, definito, ancora nel 2017, il “Tetto del mondo”».

La «lungimiranza» del boss.

Il gup evidenzia inoltre come il progetto di Luigi Mancuso, volto alla coesione, «sia stato e sia un progetto voluto e realizzato a 360°, non solo all’interno della propria famiglia, andando a ripianare situazioni di crisi con i parenti, ma anche riconciliandosi e, dunque, ricompattando tutte le ’ndrine operanti nel territorio Vibonese.

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Proprio grazie alla lungimiranza di Mancuso, invero, si sono potuti rinsaldare i rapporti con le storiche ‘ndrine “satellite” dei Lo Barba-Bianco, dei La Rosa, degli Accoranti, stringere ancor più strette relazioni con i Fiàrè-Raziònale-Gasparro di San Gregorio d’Ippona e soprattutto superare gli atavici contrasti con la famiglia “Bonavota” di Sant’Onofrio»; contrasti, mette nero su bianco il magistrato, evidentemente «frutto della storica supremazia della cosca di Limbadi (tradottasi finanche nell’imposizione della comune “Bacinella” in cui tutti gli altri gruppi versavano parte dei loro proventi illeciti) e che solo la sapiente strategia del Mancuso ha saputo stemperare, consentendo di continuare nella perpetrazione, ciascuno per la propria parte, delle attività illecite (usure, estorsioni, narcotraffico, e soprattutto una graduale infiltrazione nell’economia attraverso vere e proprie imprese mafiose o comunque vicine)».

La gestione centralizzata degli imprenditori.

E al riguardo viene definita emblematica «la gestione centralizzata, per tutti i gruppi, delle cosiddette “messe a posto” cui sono tenuti gli imprenditori (soprattutto le grandi stazioni appaltanti che hanno ottenuto commesse pubbliche, costrette a scegliere per là cessione in sub appalto di parte delle lavorazioni le ditte indicate dai predetti gruppi), gestione alla quale è deputato l’imputato Gregorio Giofrè, della cosca di San Gregorio d’Ippona, non a caso definito dal Mantella il “Ministro dei Lavori Pubblici”.

Sono in ogni caso innumerevoli le occasioni in cui emergeranno chiaramente le inestricabili cointeressenze tra le varie cosche o ’ndrine tratte a giudizio, al punto che l’assoluta trasversalità di taluni sodali renderebbe finanche plausibile il loro inserimento in più d’una delle articolazioni tratte a giudizio e ciò vale ad esempio per Andrea Prestanicola, che pare collocabile anche nella cosca di San Gregorio d’Ippona per il suo strettissimo legame con il genero Saverio Razionale; ovvero per Domenico Pardea, affiliato alla Locale di Vibo Valentia ma attivo a Pizzo anche per conto degli Anello; o ancora per Domenico Cracolici, che opera a Maierato ma da subalterno sia ai Bonavota che al boss Rocco Anello di Filadelfia».

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E queste circostanze, afferma il gup a chiare lettere, «costituiscono ennesima riprova del carattere tendenzialmente unitario del sodalizio contestato al capo A», vale a dire quello del vincolo associativo.

Il procuratore Nicola Gratteri durante la lettura della sentenza in abbreviato del processo Rinascita Scott

I rapporti con gli altri clan di ‘ndrangheta

Oltre alla politica di riappacificazione, Luigi Mancuso, una volta scarcerato, «manteneva i suoi rapporti con le principali famiglie mafiose del Reggino, quali i Coluccio di Siderno, gli Alvaro e i Polimeno di Sinopoli». Terminata la lunga detenzione “il supremo” torna ad intessere i propri rapporti ma «non potendo muoversi autonomamente essendo sottoposto alla misura della sorveglianza speciale, si rivolge a Giovanni Rizzo, che gli fa da autista anche nei mesi successivi».

E così, nel periodo compreso dal 26 giugno 2014 al 12 agosto 2017, durante il quale Mancuso si sottrae volontariamente agli obblighi della sorveglianza speciale rendendosi irreperibile, sono stati monitorati gli spostamenti del boss, ricostruita la sua rete di “assistenza” e documentato il suo relazionarsi costante con tutte le cosche a lui facenti capo e con quelle del Reggino. Si finisce con lo scoprire che l’imputato «continuava a mantenere i rapporti anche con i “Piromalli” di Gioia Tauro, già emersi nell’ambito dei processi “Tirreno”, “Mafia delle tre province” e “Porto” con sentenze tutte passate in giudicato».

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I rapporti con il Crimine reggino «sono favoriti da una serie di sodali di fiducia del gruppo, tra cui Gianfranco Ferrante, il già nominato Rizzo ed il fratello Giuseppe, Emanuele La Malfa, Gaetano Molino. Da parte loro – scrive ancora il gup Paris – i Piromalli inviavano Domenico Cangemi (sulla cui accertata posizione in seno alla consorteria rilevano le emergenze di processuali a suo carico, essendo già stato condannato per associazione mafiosa, appartenendo alla cosca “Piromalli-Molè”, nipote di Antonio Mole, uno dei vertici della consorteria).

Inoltre, emergeranno specificamente dal prosieguo della trattazione, perché oggetto delle odierne contestazioni, i rapporti con i De Stefano di Reggio Calabria (sia in fatto di recupero crediti che di traffico di stupefacenti), curati per il Mancuso dal fidato Gallone Pasquale, e per De Stefano Orazio, attuale reggente dell’omonimo clan (fratello del noto boss Paolo De Stefano), da Lorenzo Polimeno».

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