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Passiamo da un valore globale minimo di 21,009 miliardi a un massimo di 25,841 per combattere il dissesto idrogeologico, ma non siamo stati capaci di spenderne di fatto più del 6% in sei anni. Siamo allo zero totale che vale per ministeri e Regioni. Per questo condividiamo l’operazione verità condotta da Fitto sui fondi europei e riteniamo giusto estenderla a tutti i capitoli di spesa infrastrutturale. Oggi scattino gli aiuti, ma subito si varino strutture centrali guidate da uomini con poteri e competenze, commissari o meno che siano. Questo serve per cambiare registro ed evitare che l’Europa ci tratti come un Paese terzomondista imponendoci programmi di dettaglio vincolati. Si ricordi la lezione di Menichella con il Piano Marshall. LA

I numeri hanno una caratteristica per chi li sa leggere: parlano. Ovviamente bisogna avere voglia di ascoltarli. Quelli che pubblichiamo in esclusiva alle pagine II e III delle strutture tecniche di fonte “ProteggiItalia”, Mef e Presidenza del Consiglio, ci dicono in modo impietoso che i soldi per combattere il dissesto idrogeologico ci sono, ma che noi non li sappiamo spendere e che bisogna cambiare registro con urgenza. Secondo le tabelle di “ProteggItalia” le risorse disponibili ammontano a 25,841 miliardi. Secondo quelle di origine Mef/Presidenza del Consiglio si scende a poco più di 21 miliardi.

Perché in mezzo ballano i 12 miliardi attribuiti al ministero dell’Interno di cui la componente di spesa in conto capitale si aggirerebbe intorno al 70% in quanto il restante 30% (potrebbe essere anche qualcosa di più) verrebbe assorbito da spesa in conto esercizio per nuovo personale, acquisto di moto e auto di servizio, servizi di logistica, strutture tecniche e altro ancora. Non sarebbero, cioè, risorse destinate a combattere preventivamente frane e alluvioni. All’interno avete il dettaglio delle singole attribuzioni. Quello che è, però, decisamente inquietante è che su somme comunque così considerevoli, non siamo riusciti a spenderne più del 6% in sei anni. Siamo, cioè, allo zero totale.

Che è esattamente quello che ha avuto il coraggio di denunciare pubblicamente con altri rapporti deficitari il ministro Fitto a 360 gradi su tutte le inadempienze di Regioni e ministeri per l’attuazione del Pnrr e, se possibile ancora di più, nella gestione dei fondi di coesione e sviluppo e di quelli europei in generale. Ora sarà, forse, più chiaro a tutti il motivo per cui, anche qui pressoché in solitudine, molto prima che il maltempo in Emilia-Romagna e il cumulo atroce di fango e morte che porta con sé costringesse tutti a riflettere, ci siamo permessi di parlare di modello Fitto che può aprire una stagione nuova nella gestione della spesa pubblica produttiva italiana e ne abbiamo sempre appoggiato l’azione. Perché senza questa operazione verità a metà dell’anno prossimo sarebbe caduto di sicuro il governo Meloni, cosa che a seconda dei gusti può piacere o meno, ma prima ancora viene di certo a mancare quel pilastro degli investimenti pubblici finanziati dai fondi europei che permette di stabilizzare la sostenuta crescita italiana quest’anno e, soprattutto, negli anni a venire. Quindi ci giochiamo il secondo miracolo economico italiano.

Ci siamo permessi di suggerire il ritorno ad horas a un modello di governance unica che non vuol dire centralizzazione ma responsabilizzazione di tutti i soggetti coinvolti attraverso il varo di strutture uniche specializzate, non lottizzate, che permettano di guidare, indirizzare e gestire i processi di investimenti non svuotando le deleghe ministeriali e regionali, ma avendo tutti i poteri per sostituirli ogni volta che si registrino ritardi e inadempienze. In questo senso, soddisfatta immediatamente la richiesta di aiuti, l’ipotesi di nominare a stretto giro un commissario unico per il dissesto idrogeologico che si occupi di accelerare gli investimenti previsti dai piani triennali di salvaguardia e tutela ci vede favorevoli.

A patto che la scelta esprima il massimo di competenza e venga messa alla testa della prima delle nuove strutture uniche specializzate di cui questo Paese ha vitale bisogno per fare dialogare tra di loro i soggetti attuatori, a partire da ministeri, Regioni e Comuni, superare i vincoli normativi e rendicontare tutto in sede europea smentendo gli stereotipi del passato. La situazione di partenza è la seguente.

1) Le procedure a valle non funzionano perché ci sono troppi decreti attuativi e troppi di questi decreti non sono attuati.

2) Le gare bandite troppe volte non sono espletate.

3) Le gare bandite effettuate vengono espletate molto a rilento.

4) Le poche gare effettuate sono in corso di consegna lavori che può significare tre mesi come un anno o ancora di più.

5) L’aggiudicazione così faticosamente avvenuta della gara finisce quasi sempre a contenzioso.

Questo film dell’orrore che riguarda la lotta al dissesto idrogeologico come l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr) è frutto dello storico male italiano che è la frantumazione delle competenze. Elenchiamole. Ministero dell’Economia e delle finanze. Ministero delle Imprese e del Made in Italy, ex ministero dello Sviluppo. Ministero delle Infrastrutture. Ministero dell’Ambiente. Ministero per la Coesione territoriale e tutte le deleghe europee. Ministero della Sanità. Ministero dei Beni culturali.

A tutto ciò aggiungiamo venti Regioni con annessi poteri speciali che spesso coincidono nella stessa persona del Presidente, ma hanno la caratteristica di non dialogare tra di loro e i singoli ministeri o comunque di dialogare male e poco senza mai capire fino in fondo chi ha l’ultima parola. A tutto ciò aggiungiamo un mare di enti locali, anche loro ovviamente soggetti appaltanti e attuatori del Pnrr, che non sono solo Comuni e Province ma anche comunità montane e altre realtà di ogni tipo. Questo complicato quadro d’insieme significa semplicemente impazzire nel controllo programmatico come nel controllo della spesa che è più difficile di quello della programmazione. Perché una volta che tizio ha autorizzato una spesa non ha più controllo nell’effettività della spesa avvenuta perché non esiste a monte una governance unica.

Questo giornale, vogliamo ribadirlo, lo ha chiesto in tempi non sospetti appena si è parlato di Pnrr chiarendo subito che si trattava di un problema generale, anzi del primo problema competitivo del Paese su cui tutti ci osservano. Abbiamo incoraggiato, soprattutto nella stagione del governo Draghi, tutti gli atti diretti a condurre sotto un’unica cabina di regia presso Palazzo Chigi la governance auspicata dotandola di poteri commissariali e di supplenza rafforzati.

Salutammo nel silenzio generale, che sono le acque stagnanti del dibattito pubblico del nulla italiano, con estremo favore l’iniziativa della Ragioneria generale dello Stato di dotarsi di una banca dati centralizzata, Regis, che costringesse le amministrazioni ministeriali e territoriali a rendere pubblico lo stato dell’arte delle loro singole iniziative collegate all’attuazione dei 170 mila e passa progetti raccolti e inscatolati sotto la voce Pnrr.

Vogliamo ricordare a tutti l’audizione in Parlamento del commissario europeo per l’Economia, Paolo Gentiloni, che disse essenzialmente che l’Europa chiedeva all’Italia due cose per l’attuazione con successo del Pnrr: governance unica e organicità delle proposte. Diciamocela tutta fino in fondo. Non abbiamo più alternative. O si procede su questa strada, che è quella espressa dalla scelta politica della Meloni di riunire le deleghe europee sotto Fitto, o ci ritroveremo a incassare le rate del Pnrr, se tutto va bene, con una serie di raccomandazioni che ci fanno vergognare di essere italiani.

Per cui potrebbe accadere che ci vengano a chiedere l’avanzamento previsionale delle opere vincolandolo a un cronoprogramma dettagliato di mese in mese quasi fossimo un Paese terzomondista. Per questo, a partire dal primo esperimento contro il dissesto, nessuno si tiri indietro e dia il suo contributo all’attuazione con successo del modello Fitto. Mi vengono in mente dopo settant’anni le parole di Donato Menichella quando richiamò tutti all’esigenza di rendersi conto che il Piano Marshall imponeva a lui e agli altri di lavorare in modo unitario. Facciamo tesoro oggi delle parole di allora di un grande servitore dello Stato.


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