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Il miracolo di Draghi in economia Giorgia Meloni non potrà più preservarlo solo galleggiando sulla rotta sempre più stretta di finanza pubblica. Dovrà rivelarsi la nuova Thatcher facendo condividere da Comuni e Regioni il solco tracciato da Fitto sugli investimenti e portando a casa le riforme di struttura, dalla concorrenza alla giustizia, convincendo le parti riluttanti della sua maggioranza. Altrimenti saranno guai. Siamo alla battaglia finale tra la chiacchiera e la possibilità di incidere concretamente sulle cose. Nulla è perduto, ma nulla neppure è rinviabile.

Con la cabina di regia di domani mattina a Palazzo Chigi e i numerini della Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza (Nadef) da mettere nero su bianco entro giovedì scatta l’ora della verità per il governo Meloni. Si capirà in questa settimana cruciale quale sarà la strada che questo governo imboccherà sulle due cose che contano per il nostro futuro che riguardano gli investimenti finanziati dall’Europa e la nuova manovra che indirizza e determina la politica economica di un Paese. Cabina di regia e Nadef sono i due passaggi cruciali propedeutici alle scelte finali dalle quali saremo giudicati sui mercati e dalle quali dipende quella fiducia di imprese e consumatori che è stata alla base del miracolo economico nascosto della stagione di Draghi e della ritrovata capacità di attrazione internazionale dell’Italia.

Quello stesso miracolo che ci tiene ancora in vita e che Giorgia Meloni non potrà più preservare solo galleggiando sulla rotta tracciata sempre più stretta di finanza pubblica, ma imprimendo una svolta fatta di riforme di struttura e di impegno europeista federale dichiarato e perseguito che sono le due uniche carte da giocare per garantire peso all’Italia in Europa. Senza questo peso da esercitare sul nuovo Patto di stabilità e crescita europeo e molto altro, siamo già fuori gioco. Sul Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr) la prima cosa che devono capire anche i migliori degli amministratori territoriali è che non c’è più la possibilità di ricominciare daccapo. Devono capire che il cambiamento di cassa in continuità per il finanziamento dei progetti è l’unica possibilità che Fitto ha per evitare che i progetti vengano bocciati come inammissibili o definanziati per mancato rispetto delle scadenze concordate. Sul Pnrr dopo l’ok alla terza e alla quarta rata dell’Europa, e il negoziato che sta correndo su tutto il resto, non si può più tornare indietro.

È vero che questo Paese ama discutere sempre su tutto e ha il vizio di volerlo fare ogni volta che si riesce a fatica a prendere le decisioni, ma ora l’unica decisione che l’Italia può prendere se vuole salvare i fondi europei che avrebbe perso di sicuro è quella di procedere tutti insieme nella direzione giusta concordata, promossa e validata dall’Europa. Che riguarda i soldi degli investimenti pubblici e, cosa che colpevolmente si dice sempre meno, la prosecuzione del cammino delle riforme di struttura che sono state la benzina della fiducia che ha fatto la crescita record del biennio 2021/2022 e dovranno essere centrali anche nella futura legge di stabilità accompagnando e qualificando il percorso obbligato di una manovra in costante riduzione della dimensione dei suoi numeri a causa della riduzione dei saldi pubblici disponibili. È evidente ormai a tutti che non si potrà più perdere tempo con le solite misure più o meno “deficienti” con le quali si alimenta il pallottoliere di dieci miliardi di qua, di venti di là, di dieci ancora di là, avendo già pochi soldi che diventano sempre meno a disposizione.

Qualcosa in più si potrà raccapezzare tagliando un po’ di spese di ministeri e di privilegi fiscali, ma è sempre più chiaro che è finita la fase facile della stagione dei sussidi e, come ripete sempre Giorgetti, inizia ora quella difficile, ma obbligatoria, di riformare l’economia. Nella Nadef si va verso una previsione di crescita tra l’1/1,2%, un deficit/pil al 5/5,5% per il 2023 e al 3,9% per l’anno prossimo. Sul debito fare previsioni è impossibile perché le variabili in gioco sono un’infinità anche se, salvo colpi di scena a livello di tagli o colpi di testa pericolosissimi per la fiducia dei mercati, la manovra si aggirerà intorno ai 20/25 miliardi che sono molto meno di quello di cui si era sentito parlare nella lunga estate delle sbandate populiste.

Siamo arrivati al punto finale della partita che non è nient’altro che l’ora della verità di cui ho detto prima. O Giorgia Meloni si rivelerà la nuova Thatcher difendendo il solco tracciato da Fitto sugli investimenti e portandosi dietro il Paese convincendo e condividendo le scelte con chi è fuori dalla sua maggioranza o saranno guai. O Giorgia Meloni riuscirà a fare rientrare nei ranghi le parti riluttanti della sua maggioranza portando a casa le riforme di struttura, dalla concorrenza alla giustizia, o saranno guai doppi. Siamo alla battaglia finale tra la chiacchiera e la possibilità di incidere concretamente sulle cose. Nulla è perduto, ma nulla neppure è rinviabile.


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