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Non si può continuare con una rappresentazione mediatica completamente sganciata dalla realtà. Confondendo corsi regionali di formazione con la scuola pubblica e gli istituti tecnici. Servono gli investimenti privati e, prima ancora, un piano vero per la scuola e per la formazione. I soldi europei e nazionali ci sono, ma vanno sul progetto che è funzionante e non a molti governatori – soprattutto del Sud – che li vogliono e basta per soddisfare obiettivi effimeri di breve termine e magari finanziarci anche la campagna elettorale. Tutto può succedere meno che fallire su Mezzogiorno e scuola. Perché in entrambi i casi faremmo saltare il posizionamento strategico della nuova Italia. Non possiamo permettercelo.

Siamo al bivio. Per tornare a crescere ci vogliono gli investimenti privati che beneficiano degli investimenti pubblici e delle riforme del Piano nazionale di ripresa e di resilienza purché si facciano. Servono per il Nord e per il Sud produttivo che già ci sono. Ancora di più per quel sistema nuovo che dovrà nascere e consolidarsi a partire dal Mezzogiorno. 

Stiamo esportando alla grande, meglio di tedeschi e francesi, ma dobbiamo fare ancora più esportazioni. Per questo servono gli investimenti privati. Per questo, ancora prima, serve chi forma il personale qualificato. Serve molto più personale qualificato. Servono un piano vero per la scuola e un piano vero per la formazione. Anche le famiglie devono chiedere un’altra scuola per i loro figli e i sindacati si devono vergognare di difendere ogni interesse corporativo impedendo scelte meritocratiche non più eludibili. Tutto si può fare meno che picchiare gli studenti che protestano e, purtroppo, anche questo è accaduto.

La produttività si nutre di aziende più grandi con un management all’altezza ma anche di investimenti in tecnologie, di nuova organizzazione e, soprattutto, di risorse umane formate, qualificate, motivate. Per tornare a crescere stabilmente si deve partire dai banchi di scuola perché è lì che si vince o si perde la prima rivoluzione italiana del cambiamento. Come si deve partire dalla rigenerazione amministrativa degli enti territoriali, a partire sempre dal Mezzogiorno, e anche lì scuola, formazione, capitale umano, bandi meritocratici e aggiudicazioni trasparenti sono decisivi. 

C’è qualcosa, però, di ancora più profondo che va colto.  Non si può continuare con una rappresentazione mediatica completamente sganciata dalla realtà.  Per cui mille studenti mal contati in tutta Italia che protestano contro l’alternanza scuola-lavoro abolita dal 2018 e urlano contro “la scuola asservita al capitalismo”   sono gli studenti italiani che protestano. Tutti gli studenti italiani.   Oggi nelle scuole italiane ci sono i percorsi trasversali e di orientamento che non c’entrano niente con l’alternanza scuola-lavoro di cui si parla a sproposito. I due ragazzi morti mentre lavoravano in fabbrica – evento terribile assolutamente intollerabile di cui dovranno rispondere senza sconti i responsabili – non frequentavano la scuola pubblica, ma corsi di formazione professionale triennali pagati dalla Regione con i fondi europei presso i “Salesiani” di Udine e gli “Artigianelli” di Fermo. Anche questo nessuno lo dice. Il passaggio cardine della discussione di oggi, che è ovviamente totalmente fuori dal dibattito della pubblica opinione, è uno solo: la scuola e la formazione non sono più dei problemi di settore, come il contratto di categoria dei professori, ma bensì lo strumento   strategico per il riposizionamento del Paese. È questo che fa la differenza.

La verità è che se si va dietro al nulla, ci ritroveremo con il nulla.  La verità è che se si enfatizzano o strumentalizzano organizzazioni di studenti alternativi e sparute forze politiche estreme che colgono punti di malessere e di   difficoltà per fare altro, facciamo il solito gioco al massacro italiano che ha condannato questo Paese a venti anni di crescita zero e al trionfo di tutte le demagogie e di tutti i populismi possibili e immaginabili. 

Bisogna piuttosto avere   il coraggio di dire con chiarezza che la riforma degli istituti tecnici e delle scuole professionali, che non hanno nulla a che fare con il magna-magna dei centri professionali regionali, sono decisivi per il futuro dell’intero Paese. Per capire come stanno le cose si presti ascolto alle Consulte e ai forum delle associazioni degli studenti votati da una platea di un milione e settecentomila ragazzi e si potrà percepire che il dialogo sulle cose con il ministero è serrato e produce risultati. La riforma degli istituti tecnici superiori è già realtà. Si lavora per le nuove scuole professionali e per dare ai nostri docenti la dignità di carriere meritocratiche che premino finalmente la quantità e la qualità dell’impegno. Finalmente si comincia a parlare di aumenti contrattuali legati alle funzioni svolte e ai risultati conseguiti. Non si può più andare avanti con il solito piatto tutto uguale. Bisogna premiare chi sa fare, non umiliarlo.

È la stessa identica cosa che deve accadere per la politica nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e di resilienza dove siamo tranquilli sui grandi progetti di rete e molto meno invece su quelli in mano a regioni e comuni del Sud come del Nord. I governatori a ogni latitudine sanno solo dire “non vediamo un soldo”.

Perché loro vogliono i soldi e dei progetti non se ne fregano nulla. I soldi europei e nazionali ci sono, ma non per darli a loro e spenderli come   pare a loro. I soldi vanno sul progetto che è funzionante e inserito organicamente nel Piano Italia, mentre molti governatori – soprattutto del Sud – li vogliono e basta per soddisfare obiettivi effimeri di breve termine e magari   finanziarci anche la campagna elettorale. Se gli amministratori al Sud, non tutti ovviamente, non sono capaci di spendere, bisogna farlo fare a chi è capace di spendere perché il beneficio ci sarà. Se invece si pensa di farlo senza essere capaci il beneficio non ci sarà e i soldi nemmeno arriveranno. Tutto può succedere meno che fallire su Mezzogiorno   e scuola. Perché in entrambi i casi faremmo saltare il posizionamento strategico della nuova Italia. Non possiamo permettercelo.


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