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Sull’economia mondiale incombe un grave pericolo: l’inflazione corre dappertutto (in Germania ha toccato a marzo il 7.6% sui 12 mesi, il 7% in Italia, e passerà probabilmente l’8% negli Stati Uniti), spinta dalle materie prime, le cui impennate vanno percolando negli altri prezzi.

Allo stesso tempo, la fiducia, ferita dalla guerra in Europa, cala bruscamente, e non solo nel Vecchio continente. Come si vede dal grafico, le retribuzioni reali vedono una netta erosione del potere di acquisto. La ‘stagflazione’ – una parola paurosa che accoppia inflazione e stagnazione/recessione – si affaccia dietro l’angolo. Le previsioni – che fino a poco tempo fa vedevano un’economia che continuava la ripresa, dopo il rimbalzo del 2021 – vengono riviste al ribasso.

Ci sono luci in questa terra di ombre? Il ‘cigno nero’ che è venuto a turbare l’economia è ovviamente l’invasione russa in Ucraina. Se si addivenisse a un accordo di cessate il fuoco, altrettanto ovviamente il sospiro di sollievo farebbe bene all’economia e alla fiducia. Il problema è che il prezzo dell’energia – un bene pervasivo, che entra a far parte di tutti i costi e di tutti i prezzi – rimarrà elevato. Magari non così alto come nei momenti peggiori di questi mesi, ma certamente più alto di prima. I prezzi delle materie prime erano già scattati ben prima della guerra in Ucraina, spinti dalle disfunzioni post-pandemia, quando gli ostacoli – logistici e di altro genere – all’offerta avevano inceppato le catene del valore, e la minore offerta si era accompagnata a una domanda vivace, spinta dalla meritoria politica espansiva di Governi e Banche centrali. C’erano, fino a poco tempo fa, deboli segni di un allentamento di quegli inceppamenti, e, in assenza di altre disgrazie, si poteva sperare che domanda e offerta avrebbero trovato un equilibrio, allentando così le pressioni sui prezzi.

Ma, in questo processo di ridimensionamento, un grosso bastone è stato gettato fra le ruote. L’invasione russa ha fatto schizzare il prezzo dei beni energetici e non solo: la Russia è, rispettivamente, il primo esportatore mondiale di gas naturale, e il secondo di petrolio, mentre, fra Russia e Ucraina, l’esportazione di grano è una grossa quota del totale mondiale.

Ma l’impatto va al di là dell’impennata dei prezzi. Ci si è resi conto – e questo vale per l’Europa più che per l’America – che l’energia è un bene strategico – ce ne siamo accorti un po’ tardi – ed è pericoloso dipendere da un fornitore dominante. Questo vuol dire che l’Europa – e in particolare Germania e Italia – si dovrà gradualmente affrancare dalla dipendenza di gas e petrolio dalla Russia, e questo vuol dire che per ora, anche se dovesse cessare la guerra in Ucraina, i prezzi di gas e petrolio rimarranno alti.

Nell’immediato bisogna spingere sui risparmi di energia, fino al razionamento, e un prezzo alto è il migliore incentivo al risparmio. Se il prezzo dell’oro nero dovesse diminuire a livello internazionale, sarebbe opportuno che non diminuisse a livello del consumatore – famiglie e imprese – e quindi sarebbe bene che la riduzione delle accise venisse a scadere. Certo, ci sarebbero delle implicazioni distributive – le famiglie meno agiate soffrono di più dagli alti prezzi di quel bene primario – ma queste conseguenze potrebbero essere sanate da sussidi mirati: sostenere il reddito, invece di ridurre il peso fiscale sulla benzina.

In questo gioco di luci e ombre sulla stagflazione si inseriscono due elementi, potenzialmente positivi. Da un lato, è vero che il crollo della fiducia dovrebbe portare a minore spesa. Dall’altro lato, è anche vero che le famiglie, sulle due sponde dell’Atlantico, hanno ancora dei cuscinetti di liquidità, retaggio degli immani esborsi dei bilanci pubblici a supporto dei lockdown da Covid. Il secondo elemento è la reazione dei mercati. Tutto sommato, questa reazione è stata molto più composta rispetto a quanto ci si sarebbe aspettato di fronte al ritorno – dopo tre quarti di secolo – di una guerra in Europa. Anche lo spettro di un default della Russia non spaventa più di tanto.

A differenza di quel che successe con la Lehman Brothers, e le migliaia di miliardi di dollari di titoli tossici che la follia dei mutui subprime aveva sparso in giro per il mondo, la Russia non è strettamente integrata nella finanza internazionale, e anche un azzeramento degli asset russi in pancia a investitori non-russi non pone rischi sistemici.

Insomma, siamo appesi al filo degli eventi in Ucraina. Le previsioni non possono essere che proiezioni di scenari alternativi. Non c’è che da sperare che Putin torni a essere quello del 2001: «La Russia è una nazione europea amica… Una stabile pace per il continente è una meta fondamentale per la nostra nazione… I diritti e le libertà democratiche sono la chiave della nostra politica interna…».

Era il 25 settembre di quell’anno, e così Vladimir Putin, parlando in tedesco (la lingua, disse, di «Goethe, Schiller e Kant», una lingua che aveva appreso quando visse a Dresda, come agente del KGB), si indirizzò al Bundestag, a Berlino. Il discorso, di 25 minuti, fu un successo: i parlamentari tedeschi si alzarono e lungamente applaudirono queste belle parole. Putin allora aveva 48 anni. Ora va per i 70. E poi dicono che invecchiando si diventa più saggi…


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