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Emmanuel Macron

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Quella tra il settembre 1939 e il maggio del 1940 è in Francia definita drôle de guerre. Quella del 2022 per l’elezione dell’inquilino dell’Eliseo è senza dubbio una drôle de campagne.

Domenica 10 aprile i francesi sono chiamati al primo turno delle elezioni presidenziali, per poi tornarvi per il ballottaggio tra i due più votati il 24 aprile successivo. L’emergenza sanitaria prima e l’esplosione della guerra in Ucraina poi hanno finito per eliminare il dibattito politico dalla campagna elettorale, che si è tramutata in una sfilata monotona e senza grande significato in attesa del responso.

Gli ultimi sondaggi sono univoci nel pronosticare un nuovo scontro Le Pen-Macron, con una probabile riconferma per il presidente uscente. Vi sono però alcuni elementi, perlomeno nelle ultime rilevazioni demoscopiche, che renderebbero meno scontata la rielezione di Macron. Insomma, alcune nubi sembrano fare capolino rispetto a quella che quattro settimane fa era presentata come una rielezione trionfale dell’attuale presidente transalpino.

Il presidente uscente negli ultimi sondaggi è accreditato del 26/27% al primo turno. Nell’ultima settimana avrebbe perso quattro punti percentuali. Dallo scoppio della guerra in Ucraina, quando ha indossato i panni del “presidente di guerra”, complice anche la presidenza di turno dell’Ue, Macron era parso spiccare il volo nei sondaggi. La frenata potrebbe essere in parte dovuta ad una certa assuefazione al tema della guerra e in parte è legata ad una serie di prese di posizione “scomode” del presidente candidato, come quelle relative alla necessità di lavorare di più e posticipare a 65 anni l’età pensionabile. Al momento i timori maggiori per Macron risiedono in una scarsa mobilitazione del suo elettorato tradizionale, complice il passaggio al ballottaggio dato per certo e in secondo luogo l’accentuarsi di una tendenza che cova sotto traccia, ben presente al presidente all’epoca della rivolta dei gilets jaunes, e cioè un malcontento e una collera diffusa che i sondaggi attribuiscono ad un francese su due.

Se Macron sembra non dare più così per scontata la sua rielezione, il secondo ballottaggio consecutivo sembra a portata di mano per Marine Le Pen. A lungo dietro al polemista ed ex firma de Le Figaro Eric Zemmour, la leader del Rassemblement National ha saputo approfittare in maniera molto intelligente proprio della competizione nello spazio dell’estrema destra. Le Pen è stata in grado di ricalibrare la campagna elettorale sui temi economici e sociali (la vera preoccupazione di oltre un francese su due è infatti quella dell’erosione del proprio potere d’acquisto), mettendo in secondo piano quelli per lei solitamente centrali quali immigrazione, sicurezza e islam. Senza in realtà modificare il suo punto di vista molto radicale su queste tematiche, Le Pen ha finito per sfruttare le affermazioni spesso brutali di Zemmour, apparendo di conseguenza molto più moderata.

Il paradosso è che Zemmour ha finito per completare quella sorta di “dediabolizzazione per procura”, avviata già nel 2017 dall’estrema sinistra, con il suo slogan “Le Pen-Macron pari sono”. L’obiettivo attuale di Le Pen è semplice quanto a portata di mano secondo gli ultimi sondaggi (oltre il 21% al primo turno): andare al ballottaggio e tramutarlo in un referendum anti-Macron. Come peraltro pronosticato dagli analisti più accorti l’alto gradimento di Zemmour si è progressivamente eclissato in prossimità del voto, in base alla logica del “per quale ragione devo votare la copia (dell’estrema destra), quando ho a disposizione l’originale (Marine Le Pen)?”.

Vi sono invece altre tre considerazioni rilevanti da aggiungere. La prima riguarda il vero e proprio “dramma politico” che stanno vivendo gli ex partiti cardine della V Repubblica, cioè post-gollisti e socialisti. Se confermata il 10 aprile, la tendenza del 2017 di una vera e propria scomparsa delle culture politiche tradizionali, ne dovrebbe addirittura uscire rafforzata. La candidata socialista Anne Hidalgo, data sotto al 3%, dovrebbe peggiorare la disastrosa performance di Benoit Hamon del 2017. E Valérie Pecresse, dopo i sogni di gloria di dicembre (dovuti in larga parte ad una primaria interna al partito, tutta autoreferenziale), è accreditata ad un misero 9%. Nel suo caso in particolare a pesare in maniera fondamentale è stata l’incapacità da un lato di differenziarsi dal “centrismo” e dal “liberalismo” (soprattutto sui temi economici, ma anche dell’europeismo) di Macron e dall’altro l’incapacità di bloccare l’emorragia di consensi che dalla destra repubblicana e post-gollista oramai da un decennio migrano verso le posizioni di destra estrema (Le Pen, ma in questa campagna le intenzioni di voto parlano anche di Zemmour).

Il secondo dato da sottolineare è la continua risalita del tribuno di estrema sinistra, l’insoumis Jean-Luc Mélenchon. Difficilmente dovrebbe riuscire ad accedere al ballottaggio, superando Marine Le Pen (in quel caso sarebbe davvero interessante vedere le scelte dell’elettorato di destra, costretto a votare Macron e di quello ex socialista, radicale e verde, probabilmente ancora più lacerato…). La sua è una dinamica positiva in continua crescita da inizio marzo e si fa sempre più alto il suo richiamo al cosiddetto “voto utile” per non vedere ancora una volta, come nel 2017, la sinistra assente al ballottaggio.

L’ultima considerazione per il candidato dei verdi Yannick Jadot. Grande speranza per la sinistra alternativa a Mélenchon, possibile antidoto alla crisi del socialismo transalpino, in grande avanzata dopo le europee del 2019 e le municipali del 2020, il candidato ecologista non è mai arrivato alla doppia cifra e da inizio anno la sua discesa è costante. Arrivare al 6% nel momento in cui i temi dell’ambiente e del risparmio energetico sono al centro del dibattito e delle strategie di rilancio europeo, appare un risultato quanto mai modesto.

In attesa dunque del 10 aprile si possono aggiungere due ultime considerazioni di carattere generale. In base ai più recenti sondaggi il 55% dei francesi che si presenteranno alle urne per il primo turno sceglierà un candidato di un partito “estremo”, rispettivamente il 34% di estrema destra (Le Pen, Zemmour, Dupont-Aignan) e il 21% di estrema sinistra (Mélenchon, il candidato comunista e i due dei partiti trotskista e anticapitalista). L’idea del malcontento e della collera collettiva troverebbe una chiara conferma elettorale.

La seconda e ultima considerazione riguarda Emmanuel Macron. Nonostante le incertezze dell’ultima ora, se dovesse essere rieletto, sarebbe soltanto il quarto presidente (su otto) ad ottenere un secondo mandato, il primo da quando è stata introdotta la riduzione del mandato presidenziale (a Sarkozy non è riuscito, Hollande non si è ricandidato e la seconda elezione di Chirac nel 2002 giungeva dopo un primo settennato).

Considerato il breve orizzonte temporale per Mario Draghi (oltre al quadro instabile interno al contesto italiano) e le oggettive difficoltà di una leadership come quella del tedesco Scholz, complici anche le scelte di politica estera ereditate dalla lunga quanto controversa “era Merkel”, Macron si potrebbe trovare ad essere il 25 aprile il vero “uomo forte” dell’Ue, con la prospettiva di cinque anni davanti e nemmeno le costrizioni tipiche di chi deve pensare alla rielezione. La corsa all’Eliseo, come praticamente sempre accade dal 1965, è una finestra aperta sul futuro dell’Europa.


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