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Ebrahim Raisi

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Dalle elezioni presidenziali in Iran stravinte dall’ultra-conservatore Ebrahim Raisi vengono due notizie, una cattiva e l’altra buona.

Quella cattiva è che riformisti e moderati sono stati spazzati via dai duri e puri della repubblica islamica che ormai hanno in mano tutte le leve del potere come mai era accaduto nell’ultimo decennio. Controllano infatti il Parlamento, la magistratura e i pasdaran _ l’ala militare _ insieme alla Guida Suprema Alì Khamenei, ultima istanza decisionale, hanno in pugno la direzione del Paese. Ecco perché alle urne è andato un popolo disilluso, colpito dalla crisi economica, dalla pandemia e senza speranze di coltivare un’alternativa.

La Guida Suprema, 82 anni, ha piazzato agevolmente alla presidenza, ovvero alla direzione del governo, Raisi, già capo del potere giudiziario, che viene indicato anche come suo possibile successore. Da questo momento i conservatori più radicali potranno imporre facilmente la loro volontà senza ostacoli istituzionali.

L’opposizione resta nelle piazze dove i giovani sono scesi per protestare già tre volte, nel 2009 con la rivoluzione “verde”, nel 2017 e nel 2019 per sollevarsi contro l’aumento del costo della vita e la disoccupazione.

Raisi incarna perfettamente l’Iran dei duri e di chi a lungo a occupato il potere dopo la rivoluzione khomenista del 1979. Originario di un villaggio vicino a Mashhad, seconda città iraniana e sede di uno dei più importanti mausolei sciiti, Raisi ha studiato teologia a Qom, dove è stato discepolo di Ali Khamenei (il Leader supremo del paese).

La sua carriera giudiziaria è cominciata nel 1981, subito dopo la Rivoluzione. Nel 1985 era viceprocuratore di Teheran e nel 1988, sul finire della sanguinosa guerra Iran-Iraq, fece parte di uno speciale gruppo di quattro magistrati che per incarico dell’ayatollah Khomeini (l’allora leader supremo) doveva epurare i detenuti politici di cui straboccavano le carceri: fu un massacro, l’esecuzione sommaria di migliaia di persone (circa cinquemila, secondo Amnesty International). Per queste attività repressive Raisi è anche sotto sanzioni Usa.

Nel 2016 Khamenei lo ha nominato “custode” della ricca fondazione Astan Quds Razavi, che gestisce il mausoleo dell’Imam Reza a Mashad e soprattutto manovra un esteso patrimonio immobiliare controllando una fitta rete di industrie e aziende commerciali. La Fondazione Reza (Astan-e Qods-e Razavi) fattura il 10 % circa del Pil iraniano (oltre 400 miliardi di dollari) e tiene in pugno l’economia del Khorassan.

Si capisce bene che Raisi, nominato nel 2019 da Khamenei capo della magistratura, è dentro i gangli del sistema come pochi. Khamenei lo ha voluto per questo: non intende avere sorprese nella gestione del Paese e vuole preparare la sua successione magari introducendo nel sistema che le modifiche che gli fanno comodo, tra cui mantenere ai vertici della repubblica islamica anche il figlio Mojtaba. Il potere deve restare dentro alla foto di famiglia.

Qual è allora la buona notizia? E’ che un governo forte, emanazione diretta della Guida Suprema e vicino all’ala militare dei pasdaran, ha tutti i margini di manovra necessari per raggiungere un eventuale accordo ai negoziati di Vienna sul nucleare, magari ottenendo risultati migliori del governo uscente di Hassan Rohani che insieme al ministro degli Esteri Zarif aveva firmato l’intesa sul nucleare del 2015 con l‘amministrazione di Barack Obama.

L’intesa, nonostante il via libera della Guida, allora era stata fortemente criticata dagli ultraconservatori e Rohani venne poi accusato di essersi fidato troppo degli Stati uniti. Quell’accordo, su pressione di Israele, è stato poi strappato da Trump nel 2018 che nel gennaio 2020 ha ordinato l’uccisione con un drone del generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad.

Le chance di un’intesa a Vienna adesso possono diventare più concrete. Ma ci sono due possibilità. La prima che il negoziato _ cui gli Usa non partecipano direttamente _ venga accelerato da Rohani prima della sua uscita di scena. La seconda che tutto venga rimandato a dopo l’insediamento di Raisi. In questo momento le parti sono sotto pressione: lo è Rohani, ormai al passo d’addio. Ma anche Biden, che un accordo la vorrebbe alle condizioni degli Usa e deve tenere conto delle enormi pressioni esercitate dagli alleati mediorientali di Washington, da Israele alle monarchie del Golfo che chiedono agli Usa risultati concreti sul programma missilistico di Teheran e il contenimento delle milizie filo-iraniane nella regione, dall’Iraq alla Siria, dagli Hezbollah libanesi agli Houthi in Yemen. Insomma l’Iran dei “duri”, pur di farsi togliere le sanzioni, potrebbe scendere a patti.


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