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Nicola Zingaretti

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Eh, sì, sì, sembra facile fare un buon governo, si potrebbe ripetere parafrasando una battuta dell’omino coi baffi in un vecchio Carosello (roba che oramai ricordano in pochi). Come nel caso richiamato da quella pubblicità bisogna avere gli ingredienti e gli strumenti giusti e una certa sapienza nell’usarli: cose che oggi non sono esattamente sovrabbondanti. La situazione è congelata dal sommarsi di due fattori concorrenti, ma opposti: su un versante le molte difficoltà oggettive di raggiungere intese fra due forze entrambe alle prese con molti problemi; sull’altro la consapevolezza che un fallimento della trattativa fra Pd e Cinque Stelle li porterebbe entrambi ad affrontare uno sfacelo dei rispettivi consensi.

LE PASTOIE INTERNE

I due dialoganti sono entrambi impastoiati da problemi interni: più evidenti nel caso del Pd, più sotto traccia, ma altrettanto seri nel caso di M5S. Il partito di Zingaretti deve fare i conti con l’ingombrante presenza di Renzi, che, come sembra essere suo costume, invita tutti a stare sereni circa i suoi propositi, ma poi non rinuncia a far sapere che solo lui potrebbe portare a termine una trattativa in cui gli altri non credono (e che, dice lui, qualcuno pure boicotta).

Questo stato di cose indebolisce gli uomini che devono trattare, ma soprattutto rafforza il fronte Cinque Stelle, che si sente in grado di porre lui le condizioni irrinunciabili. Peraltro a sua volta il partito guidato, non si sa quanto autorevolmente, da Di Maio è vittima del peccato originale del suo ideologismo superficiale: basta leggere i 10 punti proclamati dal capo politico a conclusione delle consultazioni, per capire che non sanno rinunciare a pretendere traguardi irrealizzabili e che avrebbero costi esorbitanti, non consentiti dall’attuale stato della finanza pubblica. Certo, nel concreto, potrebbe esserci per entrambi la solita scappatoia storica che è quella di distinguere fra il “programma massimo” e il “programma minimo”: fu l’escamotage con cui i socialisti a cavallo fra Otto e Novecento cercarono di far digerire agli intellettuali ideologizzati un po’ di sano riformismo, ma funzionò per poco.

Così è possibile dire che per esempio una riduzione del numero dei parlamentari si può fare, anzi è sensata, ma nel quadro di una seria riforma complessiva del nostro sistema di rappresentanza e della nostra legislazione elettorale. Peccato che una soluzione del genere comporta tempi lunghi, incertezza di risultati e comunque necessità di comporre interessi divergenti, cioè tutte quelle cose che oggi un partito non può permettersi, perché è passata l’idea (deleteria) del tutto e subito, altrimenti non interessa.

I RISCHI

Il punto è importante proprio perché è quello subito visibile, a cui i pentastellati fanno fatica a rinunciare essendosi sporti in quella direzione senza pensarci sopra, ma è anche quello che, in una legislatura comunque a rischio di implodere, non può che preoccupare il Pd: se si tagliano subito i parlamentari e poi si andasse al voto senza essere riusciti a riformare l’attuale legge elettorale (non si hanno certezze che in tempi di populismo un referendum su quella riforma la boccerebbe), si correrebbe il serio rischio di consegnare il paese a una egemonia del populismo sovranista che chissà quanto tempo potrebbe durare.

Questo non è nell’interesse degli stessi Cinque Stelle, sebbene abbiano al loro interno costituzionalmente una frangia di irresponsabili, ma l’ideologismo che hanno sparso a piene mani negli anni della loro ascesa impedisce di gestire un approccio realistico ai problemi, perché metterebbe in crisi la natura confusa e composita del consenso che hanno raccolto.

Il Pd dal canto suo sembra fare fatica a ritrovare quello slancio che gli consentirebbe di egemonizzare i suoi nuovi ipotetici alleati. Salvini c’era riuscito, nonostante avesse la metà della loro forza elettorale, proprio perché era in grado di esibire quello slancio: magari demagogico, ma comunque tale da tenere sotto scacco i soci di maggioranza della sua coalizione. Renzi morde il freno perché sa di essere l’unico che possiede quelle capacità e non vuole ammettere che se le è bruciate e che nonostante questo fa paura (i Cinque Stelle non lo vogliono proprio per questo, Salvini lo attacca perché sa che è il suo competitore naturale in materia di comunicazione).

IL NEGOZIATO

Tuttavia non è nella gara fra comunicatori che si risolverà la crisi italiana, che è seria e non è frutto delle narrazioni interessate delle varie parti politiche. Il negoziato che si avvia fra PD e M5S è da sperare possa concludersi bene, perché un suo fallimento porterebbe il paese ad elezioni immerse nei veleni.

Se si concludesse con un contratto pieno di furbizie e retro pensieri non servirebbe a nulla. Ma valutare se ci sarà una soluzione positiva non sarà difficile: il nome del premier e l’elenco dei ministri e dei loro vice sarà, molto più delle pagine eventualmente sottoscritte negli accordi di coalizione, una prova evidente che consentirà di constatare tanto se l’obiettivo di un governo di qualità è stato centrato, quanto di capire le possibilità di tenuta nel tempo di questo esecutivo (al netto degli imprevisti negli avvenimenti della storia futura: è ovvio).


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