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HO sottoscritto, a suo tempo, i cinque quesiti dei referendum sulla giustizia anche se – sulla base di una puntuale analisi degli effetti prodotti, se approvati – ci saremmo accorti che promettevano esiti più importanti di quelli che sarebbero divenuti operativi. Ma il meglio è spesso nemico del bene. Sicuramente domenica prossima voterò Sì su tutte le schede, con particolare slancio sul quesito per l’abolizione della legge Severino, che, da deputato, mi rifiutai di votare.

Anzi, da accanito sostenitore del governo Monti mi sentii tradito da quell’esecutivo perché non esitò a pagare ‘’il pizzo’’ al giustizialismo più becero, immagino più per motivi di consenso che di convinzione.

Nel frattempo è intervenuto un motivo in più per andare al seggio e votare Sì in tutti i referendum. Invito a riflettere sulle conseguenze del mancato raggiungimento dei quorum necessari e se, per alcuni quesiti – tra i voti espressi – i No prevalessero sui Sì.

Un risultato siffatto si rivelerebbe – prima ancora che una sconfitta per i promotori e i sostenitori della consultazione – un regalo (non sperato?) per la Anm proprio nel momento in cui sta attraversando (si vedano i dati della partecipazione allo sciopero) una fase di significative difficoltà. Soprattutto il Paese avrebbe sprecato – per irresponsabile disinvoltura – una opportunità (di ardua ripetizione) per liberarsi della dittatura delle procure. Che di questo si tratti lo ammettono insigni giuristi e importanti intellettuali; e non è soltanto un conflitto che interessa le élites e i c.d. politici o in manager, ma tutti i cittadini, come dimostrano i dati sui risarcimento per le carcerazioni ingiuste, la lunghezza dei processi, le sentenze dei giudici-terzi, che, per fortuna, ristabiliscono, sempre più spesso, la verità dei fatti e demoliscano i teoremi dei pubblici ministeri.

Riferendosi alla presunzione costituzionale di innocenza fino a sentenza passata in giudicato, il giudice emerito della Consulta Sabino Cassese ha denunciato l’andazzo mediatico-giudiziario che ha stravolto la funzione del ‘’fare giustizia’’: Questo principio – ha dichiarato Cassese – è stato travolto in Italia dall’affermazione di quello che può chiamarsi un vero e proprio quarto potere, le procure. Queste non si limitano all’accusa ma, sostanzialmente, giudicano. Basti pensare alle conferenze stampa in cui si vedono procuratori circondati da forze dell’ordine, che annunciano, con titoli altisonanti, le accuse (….) e non rispettano il principio fissato dalla Costituzione nell’articolo 111, per il quale la persona accusata deve essere informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico. I mezzi di formazione dell’opinione pubblica che danno risalto alle accuse divenute giudizio.

Colui che cade in questo girone infernale sconta in ogni caso una condanna alla gogna (spesso con lunghi periodi di carcerazione) anche se alla fine, dopo anni, viene riconosciuta la sua innocenza. In realtà in questa stessa “formula’’, che è divenuta di uso comune, emerge il profilo dell’arbitrio passivamente subìto: perché non è l’innocenza che deve essere riconosciuta, in quanto è presunta; ma è la colpevolezza che deve essere accertata.

Eppure è ancora dominante la dottrina Davigo, secondo la quale una persona assolta in giudizio è un colpevole che l’ha fatta franca. Filippo Sgubbi, docente e avvocato penalista, in un breve saggio per le edizioni de Il Mulino (‘’’Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi’’) ha descritto quella che a suo avviso costituisce la ‘’distorsione istituzionale’’ dell’ordinamento giudiziario. “La decisione giurisprudenziale diventa – secondo l’autore – una decisione non soltanto di natura legislativa, quale regola di comportamento, ma anche di governo economico-sociale imperniato sull’opportunità contingente’’.

Ma la critica (“le norme penali così assumono un ruolo inedito. Sono fattori non di punizione, ma di governo’’) non si ferma qui. “Il sequestro di aree, di immobili, di un’azienda o di un suo ramo, il sequestro di un impianto industriale e simili incide direttamente sui diritti dei terzi. Con tali provvedimenti cautelari reali – prosegue Sgubbi – la magistratura entra con frequenza nel merito delle scelte e delle attività imprenditoriali, censurandone la correttezza sulla base di parametri ampiamente discrezionali della pubblica amministrazione e talvolta del tutto arbitrari’’.

Si staglia, poi, nel contesto di una giustizia penale sempre più avulsa dalle sue finalità, la fattispecie della responsabilità penale senza colpa (dal binomio innocente/colpevole si passa al binomio puro/impuro). In sostanza, il reato è diventato una colpa per talune categorie sociali: non nel senso tradizionale di uno specifico fatto – sostiene Sgubbi – commesso da una persona e connotato da colpevolezza, bensì come un male insito nell’uomo e nel suo ruolo nella società. Il reato e la colpa sono uno status che precede la commissione di un fatto. Assomiglia, per gli “impuri’’, al peccato originale.

Così talune categorie sociali sono “pure’’ per definizione e prive di colpa (esempio gli occupanti abusivi di case); anzi la loro condizione di illegalità, talvolta, è creatrice di diritti (come l’allacciamento abusivo alla corrente elettrica). Gli appartenenti ad altre categorie, invece, dovranno dimostrare la loro contingente ed episodica purezza; cioè saranno costretti a provare che in quella circostanza eccezionalmente non gli può essere imputato nulla. Per gli impuri “la salvezza penale è ardua’’ perché devono vincere la presunzione di colpevolezza e superare l’inversione dell’onere della prova. È la casta; e in quanto tale è condannata ad un costante e immanente sospetto di illecito.

Questa devianza della magistratura inquirente si è fortificata alimentando, nell’opinione pubblica, quell’ondata giustizialista, forcaiola dell’antipolitica che – attraverso gli abusi delle procure e e le complicità del circuito mediatico-giudiziario durante tanti decenni – ha screditato le istituzioni, provocato l’eutanasia dei partiti e avvelenato i pozzi del vivere civile, portando alla ribalta della scena politica i prosseneti di questa subcultura.

Col referendum si trattava e si tratta di misurarsi con questo sentimento ancora diffuso e forse prevalente che, dalla gogna si è esteso al culto della galera (“gettando via la chiave’’) come strumento per garantire la sicurezza comune anche a costo del sacrificio dei diritti. C’erano le condizioni per invertire questo squilibrato rapporto di forza tra una cultura delle garanzie e la legge del taglione? Lo vedremo nella notte del 12 giugno.

Certo, nell’eventuale (e purtroppo probabile) fallimento dell’operazione si possono individuare molte concause: l’invadenza del conflitto ucraino nell’interesse dell’opinione pubblica, il forfait dei media, lo schierarsi per il No di alcuni dei principali partiti, lo scarso impegno della principale forza politica (la Lega) che aveva promosso la raccolta delle firme insieme ai soliti Radicali.

Non era tuttavia difficile prevedere che poteva finire così: sia per l’utilizzo dello strumento di democrazia diretta, sia per i contenuti della battaglia referendaria, sia per le caratteristiche della strana coppia di promotori. Cominciamo dal primo argomento. L’esperienza pluridecennale dei referendum ha messo in evidenza due aspetti: a) gli elettori votano con i piedi; chi dissente dai quesiti può avvalersi della rendita di posizione fornita dagli astenuti; b) tra la raccolta delle firme e lo svolgimento della consultazione trascorre un tempo che, per le nevrotiche dinamiche della politica, può rivelarsi molto lungo; così si rischia sempre di andare a votare in un contesto profondamente mutato anche nell’orientamento dell’opinione pubblica. La campagna è partita quando imperversava il caso Palamara; si va a votare quando le sue interviste sono state oscurate e dimenticate e i primi provvedimenti del governo in materia di giustizia possono costituire un alibi.

In sostanza, se l’operazione referendum dovesse accartocciarsi su se stessa, verrebbe il tempo dell’autocritica, perché non si affrontano, disarmati, sfide tanto complesse, per superare le quali è necessario ‘’riconvertire’’ le suggestioni che hanno fatto breccia in un’opinione pubblica sobillata. Mi si può obiettare che anche ai tempi del referendum sul divorzio e l‘aborto vi furono gli stessi timori che l’elettorato fosse in maggioranza dall’altra parte della barricata. E non fu così. Ma allora la società italiana attraversava un periodo di crescita e di emancipazione che prese in contropiede gran parte della classe politica.

Oggi non darei il medesimo giudizio di un elettorato che ha votato come quello italiano nel 2018. L’ultima considerazione riguarda l’adagio “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei’’. La Lega e i Radicali erano e sono una ‘’strana coppia’’. Matteo Salvini – forcaiolo redento – si è gettato in questa battaglia “un po’ per celia, un po’ per non morir’’. Ma era evidente che di lui non ci si poteva fidare. Infatti, scattato il “maiora premunt’’, il Conducator ha abbandonato il referendum con lo stesso cinismo di chi scarica dall’auto il cane sulla via del mare.

Ma anche i Radicali hanno un approccio particolare nei confronti delle consultazioni referendarie. Agli eredi di Marco Pannella non interessa una vittoria in senso tecnico; perché dal loro punto di vista vincono sempre in ogni referendum. Una forza politica che non partecipa normalmente alle consultazioni elettorali o, se lo fa, riceve un consenso limitato, in occasione di un referendum è in grado di attribuirsi l’appoggio, sia pure indiretto, di quei milioni di elettori che vanno alle urne e votano secondo le indicazioni politicamente corrette. Tutto ciò premesso, auguriamoci che il risultato del 12 giugno non si trasformi in una ri-beatificazione a furor di popolo (“Santo subito!”) della magistratura inquirente. Che altro dire? Si faccia ciò che si deve; accada quello che può.


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