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Una delle tante manifestazioni del 25 aprile 1945 per la liberazione dell’Italia al termine della Seconda guerra mondiale

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QUALE bilancio saremo in grado di trarre stasera sulla giornata di oggi? Più che ai riti istituzionali occorrerà fare attenzione allo svolgimento delle iniziative di mobilitazione nelle grandi città. Perché la Festa della liberazione di quest’anno si inquadra in un momento particolare, fino a qualche anno fa giudicato di impossibile realizzazione. La forza politica nata da una costola degli sconfitti d’allora e, per questo motivo, ritenuta estranea ed emarginata dal cosiddetto arco costituzionale (la formula che durante la prima Repubblica ha tenuto insieme tutti i partiti antifascisti, incluso il Pci) è divenuta il partito più votato, ora alla guida del governo della Repubblica.

NÉ REVISIONISMO NÈ ODIO PERPETUO

La scelta di quella data come ricorrenza fondativa dell’Italia democratica è un derivato della cultura e della pratica del Cnl e costituiva la sola memoria comune (sia pure con tante contraddizioni e differenti prospettive e visioni) dei partiti antifascisti, quando tutto il resto era stato requisito dalla guerra fredda e dalla contrapposizione tra le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale. Il 25 aprile 1945 – ecco il perché di quella scelta – partì l’appello per l’insurrezione armata della città di Milano, sede del comando partigiano. Questa Festa è, per sua natura, divisiva, perché segna la fine di una crudele guerra civile, con dei vincitori e dei vinti. Non è frequente che i vincitori riescano a far celebrare ai vinti la ricorrenza della loro sconfitta. Del resto, anche in Francia il giorno della vittoria alleata in Europa nella Seconda guerra mondiale o quello della liberazione di Parigi non hanno lo stesso valore unificante del 14 luglio 1789, quando venne presa la Bastiglia. Così negli Usa si festeggia il 4 luglio (la proclamazione dell’Indipendenza nel 1776) e non il 9 aprile, quando, nel 1865, si concluse, con la resa della Confederazione, la Guerra di secessione, l’evento da cui ri-nacque la nazione americana. Anzi, per superare la memoria di quel conflitto (in cui morirono più americani che in tutte le altre guerre) è dovuto trascorrere ben più di un secolo.

In Italia, fin dall’immediato dopoguerra, è sempre stata ragguardevole sul piano elettorale e attiva su quello politico una forza “nostagica”, che rifiutava di riconoscersi nella nuova Italia che era nata dalla Resistenza. Ma da allora tanta acqua è passata sotto i ponti. L’Italia di oggi e quella di domani non devono rivedere un giudizio storico, ma neppure coltivare, in vitro, l’odio di quei tempi. È venuto il momento di nutrire, a tanti decenni di distanza, un sentimento di commiserazione per tutti coloro che persero la vita combattendo, sia dalla parte giusta sia da quella sbagliata. Anzi, fare dell’antifascismo un sentimento costitutivo e comune nell’Italia repubblicana e democratica sarebbe la più bella vittoria per coloro che combatterono per la conquista di questi obiettivi. E che costituirono un ordinamento democratico anche per gli sconfitti.

GLI ERRORI DELL’ANPI, GLI SFONDONI DI LA RUSSA

Non serve a nessuno un’associazione patriottica, come l’Anpi, divenuta un rifugio di una sinistra radicale che non ha mai superato il trauma del 1989. Quest’anno si assiste a un salto di qualità. Quei gruppi settari cacciarono dal corteo Letizia Moratti e il padre, già deportato e invalido, solo perché l’ex sindaco di Milano era una esponente berlusconiana. Impedirono a Savino Pezzotta, allora segretario della Cisl e oratore ufficiale della celebrazione pubblica, di svolgere il suo discorso soltanto perché la sua organizzazione in quel momento dissentiva dalla Cgil. Per non parlare delle rappresentanze della Brigata ebraica a cui si rimproverano le politiche dei governi d’Israele e per questi motivi vengono bandite dal partecipare alle iniziative dove sono presenti tutte le sigle palestinesi. Siamo pronti a scommettere che l’esibizione di una bandiera ucraina non sarebbe gradita.

Oggi l’antifascismo è rimasto il principale argomento di critica della sinistra al governo. Peraltro, qualcuno da FdI ha fornito il destro agli avversari. E ciò è grave quando a prestarsi è niente meno che il presidente del Senato Ignazio La Russa, con affermazioni persino irragionevoli. Giorgia Meloni è in grado, se lo vuole, di riscattare la sua parte da una sorta di “peccato originale” finora inestinguibile. La presidente può svolgere il ruolo storico di chiudere per sempre la guerra civile (e i suoi lasciti perduranti) che ha insanguinato l’Italia tra il 1943 e il 1945, riconoscendo la vittoria e il merito di coloro che hanno combattuto dalla parte giusta.

FESTA DELLA RIPARTENZA

Il 25 aprile non è una data da mettere – come è scritto nella risoluzione della maggioranza – insieme a tante altre. È la festa che segna la ripartenza dell’Italia. Meloni, se vuole, ha davanti a sé una prateria di argomenti per chiudere per sempre la frattura nella storia del dopoguerra. Deve pretendere il rispetto, almeno la pietas, per chi ha combattuto dalla parte sbagliata. Su questa linea Meloni può vantare dei grandi mentori. Il messaggio del presidente Mattarella sembra scolpito nel bronzo.

Luciano Violante, nel discorso di insediamento alla presidenza della Camera, nel 1996, affermò: «Dopo l’8 settembre anche chi andò dalla parte sbagliata e per quella idea morì, merita rispetto come le vittime della Resistenza. Mi chiedo se Italia di oggi, se noi, cioè, non si debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri». Quelle parole suscitarono dissensi e proteste, ma Violante non si è smentito. In questi giorni, in mezzo allo sconcio di un dibattito insensato e strumentale, l’ex presidente della Camera ha dichiarato: «Liberiamoci dalla toga di giudici severi del comportamento altrui». Scrisse un grande italiano, come Piero Calamandrei, uno dei “padri costituenti”: «Gli uomini che appartennero alla Resistenza devono far di tutto per cercare che queste mura non diventino ancora più alte, che non diventino torri di fortilizi irte di ordigni di distruzione e ricercare i valichi sotterranei attraverso i quali, in nome della Resistenza combattuta in comune, si possa far passare ancora una voce, un sussurro, un richiamo. Quello che unisce, non quello che separa; rifiutarsi sempre di considerare un uomo meno uomo, solo perché appartiene a un’altra razza o a un’altra religione o a un altro partito».

IL TAGLIO CON IL FASCISMO NECESSARIO E DEFINITIVO

Anche Gianfranco Fini ha invitato Giorgia Meloni a recidere ogni rapporto con il fascismo, proprio perché prese parte all’operazione di Fiuggi e alla nascita di Alleanza nazionale. Del resto, Meloni non ha nulla da temere a livello del consenso. Un partito neofascista, in Italia, non prende il 30% dei voti: si accontenta di navigare sotto vento con le percentuali del Msi. Tutti quei voti in più non sono di La Russa e dei “nostalgici”, ma di Giorgia.

Liliana Segre ricorda sempre un battibecco tra Vittorio Foa e un senatore missino (Giorgio Pisanò) il quale chiedeva rispetto anche per i caduti della sua parte. Foa acconsentì, ma fece presente che ai tempi del fascismo lui era in galera, mentre grazie alla ritrovata democrazia, Pisanò era divenuto senatore. Coloro che lottarono e morirono durante la Lotta di Liberazione hanno conquistato la libertà anche per Meloni e i suoi. È ora di ammetterlo. Senza ambiguità.


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