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Il segretario del Pd Nicola Zingaretti

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E allora il Pd? Prima risposta politologica, di Palazzo: deve ripensarsi alla luce della nuova fase politica. Seconda risposta di corridoio, popolare: è un casino, come sempre. Stavolta però l’interrogativo non arriva dall’esterno del Nazareno bensì dalle stanze del quartier generale, scivola giù per gli apparati per planare negli studi televisivi e/o sui cervelli da social. Dove in entrambe le location, appunto, è un casino. Sia che Nicola Zingaretti incappi in un lapsus che trasforma il Pd in Pci: e allora parte la polemica di un segretario prigioniero dell’album dei ricordi, archeologia politica anacronistica nonché perdente. Sia che faccia un tweet di appoggio a Barbara D’Urso: e allora dagli con le ironie sulla presentatrice che diventa la compagna Barbara D’Urss o l’invito a dire “qualcosa di sinistra” di Morettiana (e infausta) memoria.

Che il Pd sia in difficoltà è un eufemismo. Che sia il partito che paga il prezzo più alto del giubilamento di Conte a favore di Mario Draghi è una oggettiva verità. Che Zingaretti sia “stanco del fuoco amico” e punti a rilanciarsi in un congresso che però viste le premesse minaccia di trasformarsi in un rodeo sulla leadership, è una prospettiva concreta e perniciosa. Certo è che il Nazareno vive una fase drammatica. Brutalizzando, la questione può essere ridotta a due aspetti fondamentali.

Il primo è che lapsus e inciampi social sono le due facce di una stessa medaglia che ha un nome specifico: identità. Di passaggio in passaggio, di mutazione in mutazione, il Pd è diventato camaleontico adattandosi a tante giravolte e aderendo a tutte le necessità. Lasciando dietro di se una scia anch’essa dotata di un nome preciso: voglia di governo. È quello che gli rimproverava il compianto Emanuele Macaluso e che attiene al male oscuro che contraddistingue l’ultima forza politica ancorata alla difesa e salvaguardia di fondamentali vestigia del passato, memoria e prassi di valori costituzionali che hanno mantenuto la forma a costo di annacquare la sostanza. È corretto affermare che il Pd è molto cambiato fino a non riconoscersi più e a non essere più riconosciuto. È il contenitore di istanze politiche sempre più autoreferenziali, prigioniero dei gruppi che l’hanno fondato e pensano di usarlo per cavalcare aspirazioni e ambizioni anche legittime e tuttavia deboli di nesso con la realtà di un mutamento politico, sociale ed economico epocale, che spazza via comode certezze e tranquilli ancoraggi. È ingeneroso e fuorviante dire che il Pd è poco di sinistra o non lo è più. La verità è che è la sinistra a non essere più una categoria esplicativa della realtà. L’identità è sfumata e il Pd fatica a darsene una. Adesso lo scontro è sul rapporto organico o meno con il M5S, ma ha ragione Enrico Letta: “Ho sempre avuto dubbi sui dibattiti nei quali il tema delle alleanze precede quello delle identità. Prima viene una riflessione approfondita sulle proprie idee e sugli obiettivi”. È il core business di un congresso. A patto che sia vero.

Il secondo aspetto della crisi del Pd attiene al rapporto con il Paese e la rappresentanza in termini di voti. Pur essendo non trascurabile espressione della ruling class, da quando nato il Pd non ha mai vinto un’elezione politica. Nonostante la disaffezione verso le urne sia cresciuta (ma forse proprio per questo), il rapporto tra elettori e voti Democratici oscilla sempre sul 20 per cento. Il che significa che il partito di sinistra per vincere e a maggior ragione per governare è obbligato ad allearsi con un’altra forza politica, presumibilmente più moderata. La fusione, fredda o meno che si voglia giudicare, delle due culture politiche sopravvissute al ‘900 e dei due apparati che si sono autogarantiti e autoriprodotti non hai mai convinto l’elettorato, non è mai stata premiata al punto di diventare vocazione maggioritaria non solo negli aneliti di prima ma nei risultati di dopo.

Solo una volta è accaduto il contrario. E riguarda lo stratosferico 41 per cento raggiunto da Matteo Renzi alle elezioni europee del 2014. È del tutto logico che ci sia nel Pd chi accarezzi l’idea di quei fasti, magari riproponendo anche la medesima e tuttavia impraticabile leadership renziana. Che la guerriglia interna si avviti sulla figura, il ruolo, la nocività assicurata o l’estasi garantita del già segretario che ora guida un partito il cui obiettivo è prosciugare la sua ex casa, la dice lunga sull’incapacità di un gruppo di comando di uscire da un isolamento ideale e da un ombelico procedurale.

Perciò si torna all’inizio: e allora il Pd? Con o senza Zingaretti, è evidente che quella che resta l’architrave dell’impianto politico-istituzionale italiano deve ritrovare un suo equilibrio. Ma sei-otto mesi di fase precongressuale che dovrebbe svolgersi mentre gli elettori vanno a votare per le principali città italiane e concludersi addirittura alla vigilia dall’elezione del nuovo capo dello Stato, promettono settimane su settimane di tormenti e criticità nel sostegno al governo Draghi. Il Pd, come il M5S, non può farlo cadere. Alla sua ombra, deve rigenerarsi fino alla palingenesi, senza dispendere quanto di positivo accumulato finora. Compito immane: ma che altro può fare?


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