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Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti

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FORSE per orizzontarsi meglio conviene lasciare da parte Consigli federali e anticipazioni di libri, punzecchiature e irrigidimenti, duelli tanto belluini quanto mediatici e prove di forza fatte con la cartapesta.

Quel che è in atto tra Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti è un sisma profondo, una scossa tellurica che arriva al nocciolo del leghismo, di quel che doveva essere e non è più, di quello che dovrebbe diventare e rischia di non succedere mai. Una volta si sarebbe parlato di questioni di carattere oltre che di linea politica. Adesso è lo stesso ma senza i lustrini di addobbi politici finiti nel dimenticatoio.

Dunque tralasciamo i convenevoli e le analisi sugli umori e veniamo al punto. Che ha un nome e cognome ma non è una persona bensì un luogo: palazzo Chigi. Nel centrodestra ormai ectoplasmatico e liquefatto negli uomini e nelle idee ma deciso a mantenere la foggia che presenta da 25 anni e più agli elettori, il declino di Silvio Berlusconi ha lasciato un vuoto che nessuno può riempire, né tantomeno una eredità da spartire. Ha tuttavia prodotto un’assenza di potere e di prospettiva che qualcuno deve pur riempire. Quell’assenza e quella prospettiva hanno le fattezze architettonico-istituzionali dell’edificio che ospita il Potere, quello dove si insedia il presidente del Consiglio prima di andare alle Camere per il discorso della fiducia e dove subito dopo ritorna per gestire il Paese.

Il Cavaliere ha fatto il percorso di andata e ritorno più volte e ora ha dismesso il navigatore. Dunque qualcun altro lo deve sostituire sull’abbrivio del consenso popolare che ancora appare in possesso del segmento di destra del panorama politico.

Ma chi se non un forzista? L’idea del papa straniero non ha mai fatto presa da queste parti per tanti motivi e uno soprattutto: ossia che fidarsi è bene ma non farlo è meglio. Per cui il cuore politico del confronto a destra è fissato in chi deve finire a palazzo Chigi sulle orme del successo che fu e che dopo una sequela di premier di centrosinistra ora torna non solo contenibile ma col pronostico favorevole per il centrodestra.

Il terremoto delle urne del 2018 ha scoperchiato l’impossibile: una forza politica che diventa prima e ruba la scena a Berlusconi. È successo con la Lega di Salvini che prese più voti e si presentò con la leadership del Capitano alle consultazioni per il nuovo governo. Leadership che tuttavia Salvini trasferì senza colpo ferire nell’abbraccio con l’allora capo politico del M5S, Luigi Di Maio.

Come sono andate le cose lo sappiamo. Adesso a palazzo Chigi c’è SuperMario Draghi ma potrebbe lasciare il posto dopo essersi trasferito al Quirinale. Oppure restare dov’è in attesa delle elezioni del 2023.

È per quella scadenza che si pone il problema; è in vista di quel traguardo che nella Lega – passata dal 34 per cento dei voti al 19 scarso dei sondaggi – è partita la rumba. Perciò senza girarci troppo attorno, il passaggio del Quirinale di gennaio prossimo sarà certamente fondamentale, ma le carte si scopriranno in vista dell’appuntamento elettorale del 2023 (o prima, hai visto mai). Se Matteo Salvini riuscirà in qualche modo ad arrivare a palazzo Chigi come grande timoniere di una coalizione di centrodestra in qualche misura rabberciata, avrà ovazioni in strada e giulebbe sulla tavola, mentre Giorgetti e gli altri, da Zaia a Fedriga, dovranno ricostruirsi un’immagine da “lumbard” epigoni della razza padana, come è sostanzialmente successo a Maroni, Castelli ed altri esponenti del Carroccio prima maniera.

Se invece quell’obiettivo fallirà, per l’ex ministro dell’Interno non ci sarà neppure la finzione del processo con annessa autodenuncia: gli verrà semplicemente indicata la porta. È palazzo Chigi il vero trofeo da conquistare. Ma per arrivarci bisogna seguire alcune linee direttrici che non riguardano solo gli equilibri politici italiani ma anche (e magari soprattutto) la collocazione europea. In particolare se Bruxelles esercita la vigilanza sull’erogazione dei fondi del Recovery. Quelle finora battute da Salvini pongono per Giorgetti il treno leghista su un binario morto.

Il nodo del braccio di ferro politico dentro la Lega sta qui. Non Draghi dove deve andare e su quale poltrona sedere; non i rapporti con veri o presunti alleati. Piuttosto l’interlocuzione che c’è con i vari premier continentali. Se Salvini fa sponda con Orban e col capo del governo polacco, Mateusz Morawiecki, allora la partita è persa. Morawiecki guida un Paese che si è liberato dal gioco sovietico senza mai aver conosciuto i meccanismi politici del liberalismo, e non vuole accettare che altre istituzioni sovranazionali possano mettere becco nella giurisdizione domestica.

Il premier è arrivato ad evocare nei confronti della Ue la resistenza della Polonia contro il Terzo Reich: “E li abbiamo battuti”, ha dichiarato. È evidente che con simili compagni di viaggio ogni prospettiva di promozione di leadership governativa rinsecchisce. Per Bruxelles, infatti, sarebbe assai complicato accettare che l’Italia, Paese fondatore dell’Europa, abbracciasse temi e modalità come quelli evocati dai polacchi. O dagli ungheresi. Certo, l’idea di Salvini è scompaginare il campo in cui si muove la Meloni. Ma il prezzo – è questo l’ammonimento del ministro dello Sviluppo – minaccia di essere eccessivo.

Sta qui il vero terreno di scontro tra le anime della Lega. Per arrivare a palazzo Chigi bisogna vincere le elezioni e acquisire lo status di leader europeo. Al momento appaiono obiettivi lontani: il pericolo è che diventino irraggiungibili.


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