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Giuseppe Conte e Luigi Di Maio

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Dove sta andando il M5s? Dopo le ultime vicissitudini del movimento che avrebbe dovuto rivoluzionare la politica italiana è legittimo chiederselo. Al suo esordio, il partito fondato da Beppe Grillo era un calderone di pulsioni contrastanti. Prima di tutto, c’era il “Vaffa” contro la politica italiana, accusata di essere un agente della corruzione e del degrado morale. Grazie alla retorica anti casta, il movimento raccolse gli insoddisfatti di ogni origine politica. Più di tutti, i delusi del Pd.

Fin dalle origini, insomma, i grillini incarnano la parte dei “redentori”, un po’ come accade da sempre nei populismi sudamericani: basti pensare alla storia di Castro o di Chavez. L’idea messianica dei pentastellati – alla Di Battista, per intenderci – si risolveva appunto nel compimento di una missione redentrice. Il loro popolo di cittadini offesi dalle bricconate della politica cattiva era elevato a comunità organica, virtuosa ma vessata.

Grazie a questa narrazione, i grillini riuscivano a raccogliere di tutto: scarti della destra e della sinistra, personaggi improbabili in cerca d’autore, parvenu dell’attività politica, drop out della vita reale. Centomila anime diverse alle quali corrispondevano altrettante idee confuse. Un miscuglio di no alla crescita, allo sviluppo, al mercato, al liberismo, alla democrazia rappresentativa, al capitalismo, all’Europa, all’euro, alla Nato.

Il M5s accontentava così tutte le pulsioni antisistema, raccogliendo soprattutto nel vasto elettorato protestatario (ma velleitario) del nostro Mezzogiorno. Nella legislatura scorsa, passata sui banchi dell’opposizione, ha campato sulla poesia del cambiamento senza mai scontrarsi con la prosa della realtà. La vittoria alle elezioni del 2018 cambia tutto. Il M5s diventa l’architrave della legislatura e di tutti i governi che vi si sono succeduti.

L’identità multiversa delle origini si traduce sempre più in una facciata monolitica. Non soltanto perché forgiata dal fondatore Beppe Grillo. Ma soprattutto perché il destino del nuovo soggetto politico si realizza nella figura del capo di governo: Giuseppe Conte. E la molteplicità di attese di cambiamento si esauriscono in una domanda univoca di assistenzialismo: le misure redistributive come il reddito di cittadinanza e Quota 100 (concordate con la Lega, che raccoglie le medesime pulsioni da destra) sono l’eredità di questa fase. Sotto l’immagine unificatrice del presidente del consiglio, il M5s cerca di tacitare le sue mille anime.

La verità, ovviamente, è molto diversa. Tanto è vero che, tra fughe disperate e purghe autoritarie, decine di parlamentari transitano verso altri lidi: o nel gruppo misto o, direttamente, in altre formazioni concorrenti. Sacrifici politici (e umani) necessari per garantire una coriacea conformità nella figura di Giuseppe Conte. A un certo punto, il vento comincia a cambiare.

Dopo le note vicende, Conte cade in disgrazia e viene sostituito e surclassato dalla stella di Mario Draghi. È l’ultima fase del movimento: prima ‘centomila’ (cose diverse), poi ‘uno’ (Conte, capo di governo), poi… ‘nessuno’ (Conte capo politico). Proprio mentre Draghi fa il grande timoniere euroatlantico, guidando la nave Italia verso la meta dell’attuazione del Pnrr e della ritrovata credibilità internazionale, tra i pentastellati scoppia la crisi di identità definitiva.

Nessuno sa cosa sia, oggi, il M5s. A partire dalla scelta del presidente della Repubblica, Conte pasticcia su tutto. L’acclamato “punto di riferimento fortissimo dei progressisti” è già un ex, indeciso a tutto. La Russia invade l’Ucraina? E lui: né con Putin, né con la Nato. L’Europa sostiene Kiev a spada tratta? Sì ok, ma niente armi. L’Ue rilancia la difesa comune come risposta alla minaccia imperialista di Mosca? Voglio i sussidi, no alle spese militari. La Francia deve scegliere tra europeismo e nazionalismo? L’avvocato assicura: né con Le Pen, né con Macron. Alla fine della storia, il M5s si guarda allo specchio e non ci trova più nessuno.


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