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È UN Medio Oriente di esasperazione e disperazione quello che si dischiude davanti ai nostri occhi. Dove uno Stato cerca vendetta, vuole salvare gli ostaggi nelle mani di Hamas, distruggere Hamas stesso, estirparlo dalla Striscia. La barbara incursione di Hamas del 7 ottobre, un attacco senza precedenti al cuore dello Stato d’Israele, sembra più lontana di un mese e mezzo: sembra più lontana agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, perché nel frattempo si contano i morti e e la disperazione per la distruzione tra i civili di Gaza, una vera e propria crisi umanitaria dove gli aiuti sono difficili se non impossibili nonostante i ripetuti appelli a Israele della diplomazia internazionale e delle vane risoluzioni approvate dall’ONU.

E, stando agli ultimi sviluppi di cronaca, e alle parole del ministro delle Finanze del governo israeliano, Bezalel Smotrich, leader di uno dei partiti ultranazionalisti che formano il governo Netanyahu, favorire lo spostamento dei palestinesi che vivono a Gaza altrove nel mondo: “Israele – ha detto – non potrà più accettare l’esistenza di un’entità indipendente (a Gaza, ndr)”. Questo, mentre l’esercito israeliano ha compiuto dei raid nell’ospedale Al Shifa di Gaza City poiché ritiene che nei suoi sotterranei si trovino dei centri di comando di Hamas e mentre l’assistenza sanitaria nella striscia è ormai al collasso: mancano l’acqua e l’ossigeno, indispensabili per curare e salvare le vite di centinaia di civili, molti dei quali bambini, vittime della rappresaglia di Israele. È un conflitto che potrebbe mandare in cortocircuito la diplomazia internazionale e che sembra sempre a un passo dall’allargamento all’intera Regione. Dove si accusano gli Stati Uniti e la Germania di non avere abbastanza a cuore il destino dei palestinesi per aver espresso posizioni a favore dello Stato d’Israele e della sua legittimità a difendersi.

La visita di venerdì a Berlino del presidente turco Recep Tayyip Erdogan è stata quantomai tesa. Le valutazioni sul conflitto tra Israele e Hamas sono completamente divergenti e perché, magari non del tutto casualmente, il processo di ratifica da parte del Parlamento turco dell’adesione della Svezia alla Nato sta conoscendo qualche ostacolo di troppo. Il cancelliere Olaf Scholz è stato esplicito fin dall’inizio sulla vicenda: la Germania ha tra i suoi elementi fondanti la difesa dello Stato d’Israele. Non meno chiaro è stato Erdogan, addossando a Israele responsabilità enormi per le continue violazioni del diritto internazionale nei confronti dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania. Finora gli Stati Uniti, che continuano a raccomandare al Governo Netanyahu di intervenire in maniera mirata nei confronti di Hamas senza coinvolgere i civili, non sono stati molto ascoltati.

Ed è una guerra atroce dove il conteggio delle vittime resta nelle mani degli schieramenti. Hamas sostiene che la rappresaglia israeliana abbia causato finora quasi 12mila morti. Israele nega che il numero possa essere così alto, ma ha anche rivisto al ribasso, da 1.400 a 1.200, quello delle vittime del pogrom del 7 ottobre. Lo stesso presidente Biden ha detto di non fidarsi delle statistiche di Hamas, ma alcune fonti del Dipartimento di Stato Usa non escludono che il numero delle vittime palestinesi possa essere sottostimato. In Medio Oriente la situazione e la disperazione sul campo sono tali da non permettere il funzionamento della macchina degli aiuti umanitari. La mancanza di carburante, questo il grido d’allarme dell’Onu, sta paralizzando il meccanismo. L’unico aspetto parzialmente confortante è che la diplomazia internazionale, anche se con equilibri sempre più precari, è costantemente in moto. Perfino quella tra Stati Uniti e Teheran, come ha fatto sapere il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amirabdollahian in un’intervista al Financial Times. I contatti tra i due Paesi, ha rivelato il ministro, sono stati costanti da quando è iniziato il conflitto tra Hamas e Israele. Il canale di comunicazione è quello della rappresentanza diplomatica americana in Svizzera.

L’Iran ha un ruolo fondamentale in questa crisi, anche se il ministro ha ripetuto ciò che hanno detto alti esponenti delle autorità iraniane nelle settimane scorse: non eravamo al corrente dei piani di Hamas contro Israele. Teheran inoltre, nonostante affermi il contrario, controlla una serie di gruppi del cosiddetto asse della resistenza, che negano il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele. Hezbollah in Libano, i più armati, numerosi e determinati; gli Houti nello Yemen e gruppi paramilitari in Siria e Iraq. E Hamas. Il ministro non attribuisce loro, tantomeno a Hezbollah, il ruolo di “proxy”, ma li definisce gruppi con una loro precisa autonomia politica. Aggiunge però che l’atteggiamento americano, che ha inviato nella Regione del Golfo due portaerei, aumenta il rischio di escalation, già elevato a causa del numero impressionante di vittime tra i palestinesi, un numero che non può lasciare indifferente il mondo arabo. E suggerisce che l’asse della resistenza, anti-israeliana e anti-americana, possa attivarsi a prescindere dall’influenza che l’Iran esercita nei loro confronti.

La polveriera in Medio Oriente ha infine distolto lo sguardo del mondo da un’altra disperazione, da un altro conflitto che continua a combattersi nel cuore dell’Europa, quello tra Russia e Ucraina. Sembra, triste dirlo ma è così, una guerra dimenticata troppo in fretta che lascia più tempo e spazio di manovra a Vladimir Putin nella sua aggressione contro Kiev. Una distrazione di massa che coincide con un affaticamento politico da parte dello stesso Occidente, meno coeso di un anno fa sulla necessità di inviare armi all’Ucraina. Sia l’Europa sia gli Stati Uniti, dove incombe già la campagna elettorale per le presidenziali 2024, incontrano crescenti difficoltà a deliberare nuovi finanziamenti bellici.


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