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La sala riunioni della conferenza Stato Regioni

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Nel voto referendario sul taglio del parlamento ha prevalso il Sì. Il 31% raggiunto dal No – che registrava nella fase conclusiva una rapida crescita – è superiore a quanto si ipotizzava all’inizio della campagna. È possibile che un voto referendario non ristretto nell’election day avrebbe consentito un risultato ancora migliore. Ma ora con l’esito bisogna fare i conti.

Il taglio indebolisce l’istituzione parlamento. Per il danno alla capacità rappresentativa delle assemblee, ed in specie del Senato, che i “correttivi” di cui si discute, anche laddove venissero adottati, non potrebbero sanare. A questi si aggiunge un effetto collaterale che potrà pesare non poco in futuro.

Cominciamo col notare che nella crisi Covid la lotta al virus si è fondata sulla concertazione tra esecutivi e sulla parallela pressoché totale emarginazione del Parlamento. Sede politica primaria dell’accordo tra Palazzo Chigi e i “governatori” sono state le conferenze. Ne è seguita una cacofonia istituzionale anche sfociata in una battaglia di carte bollate di fronte ai Tar, con esiti alterni: Calabria, Sardegna, Piemonte. Ed è certo significativo che il Governo non abbia mai inteso nemmeno provare la via del potere sostitutivo ex art. 120 Cost., di cui almeno in principio avrebbe potuto disporre.

La Conferenza Stato-Regioni non è certo una novità. La Conferenza ha ricevuto nel tempo molteplici attenzioni dal legislatore, e trova anche sostegno nella giurisprudenza della Corte costituzionale che si richiama al principio di leale collaborazione. Da anni, ormai, la Conferenza condiziona anche il lavoro del Parlamento, chiamato a rispettare le intese eventualmente raggiunte in quella sede. In un riassetto degli equilibri tra centro e periferia costituirebbe probabilmente uno snodo essenziale. Significativo, a tale proposito, è il ddl AS 1825, in discussione presso la Commissione Affari costituzionali del Senato. Prevede l’introduzione di una supremacy clause nell’art. 117 Cost, per la potestà legislativa, e la costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze.

Una prima domanda. Cosa potrebbe significare oggi la costituzionalizzazione delle Conferenze, a valle della crisi Covid e del nuovo protagonismo già conquistato sul campo dalle regioni? Considerando la contestuale marginalizzazione delle assemblee elettive, si rischierebbe di avere una terza camera para-legislativa di fatto, con la riduzione del parlamento alla mera registrazione di scelte maturate in sedi poco visibili e per niente trasparenti. Di sicuro, non sfuggirà a questo la distribuzione delle ingenti risorse UE che prima o poi arriveranno. Il taglio referendario può solo peggiorare una situazione già difficile.

Una seconda domanda. La Conferenza stato regioni è stata la sede in cui è maturato negli anni l’accrescersi del divario Nord-Sud. Sanità, scuola, trasporti ne sono la dimostrazione evidente. Questo è accaduto anche per la subalternità e l’ignavia del ceto politico meridionale, pronto ad accontentarsi di briciole in cambio di potere gestionale. È indispensabile un cambio di passo, nella azione politica e amministrativa, per una più efficace difesa degli interessi del Mezzogiorno. Non dimentichiamo che l’autonomia differenziata è sempre in campo, e certo non svanirà per un colpo di bacchetta magica. Mentre Bonaccini, presidente della Conferenza, e potenzialmente in corsa per la segreteria Pd, parla lo stesso linguaggio di Zaia.

Nel polverone della campagna elettorale abbiamo colto la notizia che De Luca avrebbe nominato come responsabile per i rapporti con la Conferenza Stato- Regioni uno dei suoi ex autisti, causa da ultimo di dure polemiche. Dei profili di responsabilità non ci occupiamo, spetterà ad altri. Ma che dire della scelta di De Luca? Ci difendiamo così? Speriamo che sia una fake news. Diversamente, ci sarà da preoccuparsi.


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