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L’impianto petrolifero di Tempa Rossa

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La “provincia petrolifera d’Europa”, così definita da Total, è in stand by. Come tutto il mondo del petrolio, anche la Basilicata aspetta l’approvazione del nuovo PiTESAI (acronimo che sta per Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle aree idonee). Il documento tanto atteso, deciso nel 2019, dovrà dire, dopo la svolta green dell’Europa, dove, come e con quali prospettive procedere alla coltivazione degli idrocarburi. È importante interrogarsi su quello che è il destino del petrolio in questa piccola regione il cui futuro è strettamente legato al prezioso oro nero.

Infatti, a regime, dai pozzi lucani dovrebbero essere estratti 154 mila barili al giorno, pari all’80% di tutto il greggio estratto in Italia in grado di coprire il 12% dell’intera bolletta energetica nazionale. Complessivamente il territorio è punteggiato da 27 pozzi in Val d’Agri (Eni e Shell) e 6 pozzi nella Valle del Sauro (Total) che pompano greggio poi avviato ai due Centri Olio, uno a Viggiano e l’altro a Corleto Perticara.

A governare tutto il processo sono la “concessione Val d’Agri” del 1999 e la “concessione Gorgoglione” del 2003 che riguarda la collina di Tempa Rossa. La “concessione Val d’Agri” è giunta a scadenza nel 2019 andando a coincidere con una serie di eventi che portano ai dubbi attuali su quello che sarà il futuro del petrolio lucano. In quell’anno (13 febbraio 2019) il governo istituì una moratoria di due anni, cioè la sospensione temporanea di qualsiasi autorizzazione o concessione per la ricerca o estrazione degli idrocarburi. Fu necessaria, a detta del governo, proprio per la redazione del PiTESAI.

La questione diventa attuale proprio perché questa moratoria è scaduta il 30 settembre del 2021, ma, malgrado gli impegni, del PiTESAI nessuna traccia. La cosa ha messo in allarme gli ambientalisti. Infatti, in un comunicato stampa congiunto di GreenPeace, Legambiente e WWF si legge: “In assenza dell’adozione del PiTESAI entro il 30 settembre, si sono rimessi in moto i procedimenti autorizzativi vecchi e nuovi (compresi quelli di Valutazione di Impatto Ambientale) per la prospezione e ricerca degli idrocarburi, che erano stati sospesi sino a fine settembre e che ricominceranno a minacciare circa 91mila chilometri quadrati di mare e 26mila kmq sulla terraferma”. Tra questi ovviamente rientra anche la Basilicata.

Va da sé che questo contesto abbia influito sul rinnovo della “concessione Val d’Agri” con l’ENI scaduta nel 2019. Già due anni prima, però, la multinazionale aveva chiesto la proroga decennale (fino al 2029) con relativo ampliamento del programma operativo, prevedendo la perforazione di un nuovo pozzo (il Pergola 1) nel territorio di Marsico Nuovo.

Nel 2019, però, ad integrazione della proroga l’Eni rinunciò al nuovo pozzo e non sono pochi quelli che credono che su questa decisione abbia influito la Direttiva europea del 28/11/2018 dove la completa decarbonizzazione entro il 2050 viene indicata come obiettivo strategico da raggiungere insieme a quello di ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030 (come previsto dagli Accordi di Parigi).

In vista di questi impegni è ovvio che le grandi multinazionali petrolifere dovranno adeguarsi. A questo punto il tetto di 154 mila barili (104 mila dalla Val d’Agri e 50 mila da Tempa Rossa) difficilmente sarà toccato, ma anzi si prevede una graduale diminuzione fino ad arrivare a 70.000 barili al giorno, come si ritiene negli uffici dell’assessorato regionale all’ambiente. Diminuzione necessaria sia per il processo di decarbonizzazione che in qualche modo deve essere inaugurato col PiTESAI; sia perché dopo 20 anni di estrazione è aumentata “l’acqua di strato” che fuoriesce dai pozzi insieme al greggio ed ora inizia a costituire un serio problema.

L’Eni prevedeva, infatti, di utilizzare tre pozzi esausti per la reiniezione nel sottosuolo di quest’acqua (metodo presentato come altamente sicuro e con minore impatto ambientale, ma che in realtà suscita molti dubbi negli ambientalisti). La società è riuscita a realizzarne uno solo a Montemurro (“Costa Molina 2”) ormai vicino al livello di saturazione e contestato dalla popolazione. Anche la Regione si oppone agli altri due e l’Eni pare essersi rassegnata impegnandosi così a trasportare con autobotti le tonnellate di liquame nell’impianto di trattamento di Tecnoparco di Pisticci nel materano (una società a partecipazione regionale).

Nel frattempo, in attesa degli sviluppi, la Regione Basilicata ha sottoscritto un accordo preliminare con l’azienda dove sono indicate le compensazioni ambientali e soprattutto economiche che le spetterebbero nei dieci anni di proroga (se consentita dal MiTE). Il presidente Vito Bardi ha presentato l’intesa come del tutto vantaggiosa per la regione, la quale dovrebbe guadagnare sei o sette volte di più rispetto agli anni precedenti. Sulla Basilicata sta per arrivare una pioggia di denaro, in quanto, oltre ai 120 /140 milioni l’anno dalle royalty, l’intesa prevede un’integrazione tra i 60 e i 70 milioni di compensazioni aggiuntive.

Curiosamente, tale accordo è stato approvato in giunta regionale il 30 aprile scorso, praticamente qualche giorno dopo la presentazione del PNRR in parlamento da parte del presidente del Consiglio Draghi. Alla luce di ciò sorprende che nel documento non sia mai citata la transizione ecologica, ma dalla regione si sdrammatizza definendolo un accordo di natura esclusivamente economica.

Di fatto la regione si trova stretta tra le attese legate alla Transizione ecologica e i timori, più o meno velati, degli amministratori regionali che con la prevista chiusura dei pozzi vedranno cancellate anche le sostanziose royalty utilizzate – è la critica ricorrente – più come spesa corrente che come fondi straordinari da reinvestire nello sviluppo del territorio. Soprattutto, se nel frattempo le royalty vengono utilizzate come parte del bilancio ordinario (ad esempio per l’università) cosa succederà a queste strutture quando non potranno più attingere al bonus derivante dal petrolio? Per ora, tra timori e speranze, non resta che attendere.


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