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A Bruxelles la direttiva sul salario minimo legale è in dirittura di arrivo: così si è riaperto il dibattito anche in Italia. In verità la Commissione ha già chiarito che l’obiettivo del salario minimo può essere raggiunto attraverso la contrattazione collettiva purché abbia un’efficace generale. E questo  – pur  se ci ha “autorizzati’’ a non essere inclusi nell’elenco di quei Paesi che non hanno istituito il salario minimo – ci ha messi in difficoltà perché un esito siffatto è raggiungibile nell’ordinamento a condizione che si  riesca a snodare un groviglio di questioni giuridiche e pratiche che tutti dicono di voler risolvere ma nessun governo è mai riuscito a farlo: la definizione con legge ordinaria, in coerenza con quanto previsto dall’articolo 39 della Costituzione, dei criteri per l’accertamento della rappresentanza e della rappresentatività delle organizzazioni abilitate a stipulare contratti validi erga omnes.

LA TENTAZIONE DEL GOVERNO

Questo articolo rimasto inattuato sia per motivi politici, sia perché la rinascita del sindacalismo democratico ha preso un’altra strada rispetto a un articolo che risentiva troppo del periodo corporativo, si è trasformato in una sorta di “convitato di pietra’’ che finora ha impedito il varo di una legge organica più consona alla realtà fattuale.

Peraltro la situazione è diventata più complessa col venir meno dell’oligopolio Cgil, Cisl, Uil – Confindustria e l’introduzione nel mercato della contrattazione di altri soggetti, con la conseguente moltiplicazione dei contratti collettivi.

È forte, pertanto, la tentazione del governo Draghi di togliersi il pensiero e di saltare il fosso del salario minimo legale. È all’esame l’ipotesi di fissare un minimo corrispondente a quello del Ccnl “multiservizi”, circa 8,50 euro/ora lordi in modo che la legge non richieda coperture di finanza pubblica poiché gran parte della PA affida lavori ad aziende che usano contratti “multiservizi”.

 In proposito esiste un lavoro preliminare svolto al Senato sulla base di un testo predisposto, in qualità di relatrice, dall’allora presidente della Commissione Lavoro, Nunzia Catalfo, che poi divenne ministro del Mlps portandosi appresso quelle elaborazioni, messe tuttavia in sonno per le contingenze politiche sopravvenute (e soprattutto perché troppo generose, – persino ultra petita nei confronti delle organizzazioni sindacali).

Per farla breve, il ddl Catalfo, manipolando l’articolo. 36 della Costituzione, rimetteva ope legis i sindacati storici al centro del sistema, concedeva la copertura della legge ai contratti da loro sottoscritti insieme ai datori di lavoro e forniva loro una base di 9 euro all’ora, che costituivano – si disse al lordo – il salario minimo.

Su questo testo si svolsero audizioni importanti, allargate ai soggetti e alle istituzioni da cui potessero pervenire analisi e valutazioni utili al proseguimento dell’iter legislativo e alla conoscenza degli effetti economici e sociali. Ovviamente, in quelle audizioni non poteva mancare l’Istat che – nella memoria presentata – calcolò che i lavoratori per i quali l’innalzamento della retribuzione oraria minima a 9 euro avrebbe comportato un incremento della retribuzione annuale erano 2,9 milioni, ovvero circa il 21% del totale dei prestatori (2,4 milioni, escludendo gli apprendisti). Per questi lavoratori l’incremento medio annuale sarebbe stato pari a circa € 1.073 pro-capite, con un incremento complessivo del monte salari stimato in circa 3,2 miliardi di euro.

GLI EFFETTI DELL’ADEGUAMENTO

L’adeguamento al salario minimo di 9 euro lordi avrebbe determinato un incremento sulla retribuzione media annuale dello 0,9% per il totale dei rapporti e del 12,7% per quelli interessati dall’intervento. L’incremento percentuale più significativo avrebbe interessato i lavoratori occupati nelle altre attività di servizi (+8,8%), i giovani sotto i 29 anni (+3,2%) e gli apprendisti (+10%).

L’Inapp in quell’occasione presentò delle stime più severe: con un salario minimo fissato a 9 euro lordi il 14,6% dei lavoratori avrebbe avuto un incremento retributivo per un costo di 4,1 miliardi a carico delle imprese. Sempre secondo l’Inapp l’adeguamento a 9 euro lordi riguarderebbe il 25% degli occupati di imprese fino a 10 dipendenti; il 3% di quelli nelle imprese più grandi. Ciò in un contesto in cui è abbastanza estesa la copertura della contrattazione collettiva.

Ammesso e non concesso che il mondo delle imprese accetti di assumersi (nel momento in cui tutti cantano in coro che va ridotto il costo del lavoro) l’onere del salario minimo legale, mi pare che, in prospettiva, si sottovaluti un problema che non può sfuggire a chi – come lo scrivente – ha vissuto in prima linea la batracomiomachia della “scala mobile”

Tra i tanti problemi che quell’istituto creava ce n’era uno che è stato sottolineato da Pierre Carniti, uno dei grandi protagonisti di quella vicenda che si protrasse per un decennio nell’ultimo scorcio del ‘’secolo breve’’, nel libro pubblicato postumo “Passato prossimo. Memorie di un sindacalista di assalto, 1973-1985’’ (Castelvecchi 2019).

Lo storico leader della Cisl (pur richiamando a giustificazione gli effetti di ben due crisi petrolifere) ricorda che «l’incidenza sull’incremento delle retribuzioni nominali, dovuto all’indennità di contingenza, passa dal 49,6% del 1974 all’87,2% nel 1980».

IL RISCHIO

In sostanza, in tempi di tassi di inflazione sostenuti, l’automatismo della “scala mobile’’ finiva per mettere in discussione e occupare abusivamente il ruolo stesso di “autorità salariale’’ del sindacato. Mutatis mutandis non potrebbe determinare la medesima conseguenza l’istituzione per legge del salario orario minimo?

Secondo l’Inapp 9 euro lordi rappresentano l’87 per cento del salario mediano nazionale. Va da sé che gli spazi reali di contrattazione verrebbero meno a livello nazionale e potrebbero essere recuperati solamente attraverso la contrattazione di prossimità in relazione con gli incrementi della produttività (quanti lamentano che i salari in Italia sono bassi dimenticano di aggiungere che la produttività del lavoro è ormai piatta da quasi trent’anni).

Dunque l’introduzione del salario orario minimo potrebbe ridimensionare il ruolo della contrattazione nazionale di categoria, proprio per i limitati margini economici disponibili al di sopra dell’importo dovuto per legge. Forse ci accorgeremmo, a quel punto, che la vera anomalia del sistema contrattuale italiano sta proprio in quell’istituto che abbiamo ereditato dall’organizzazione politico-sociale del periodo corporativo.


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