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Enrico Letta

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Classe dirigente? E che vuol dire? Dirigente di che? Esiste una classe dirigente in Italia o soltanto nuvole di singoli manager ed efficientisti riformatori? Ai tempi cupi della guerra fredda, tutti i partiti immobili come le stelle fisse nel cielo tolemaico avevano la loro scuola di partito. I comunisti alle Frattocchie, i democristiani in vai luoghi della via Camilluccia, gli altri decidevano di volta in volta. Quando Berlusconi fondò Forza Italia creò una scuola di formazione per tutti i quadri che non venivano da Publitalia. La Lega Nord i Umberto Bossi aveva fior di scuole di formazione quadri che hanno fornito al Nord una eccellente classe di consiglieri comunali, sindaci e amministratori.

Ma tanto tempo è cambiato e io non abito più qui, come diceva una vecchia canzone di Gino Paoli, e ormai si sono scardinati anche i fondamenti della identità esistenziale dei partiti e la loro collocazione a destra e a sinistra. Esempio recente e lampante: il Pd di Enrico Letta manifesta scarsissimo interesse per le vertenze degli operai licenziati in piazza, i quali d’altra parte sventolano spesso bandiere tricolori più che i vessilli dei sindacati.

E invece, per un evidente calcolo fondato sulla visibilità, il Partito democratico, erede sia del Partito comunista che di una parte della Democrazia cristiana, si è andato a sfracellare contro il Parlamento e il voto segreto, per difendere il Ddl Zan sulla difesa dei diritti delle identità sessuali. È stata una scelta strategica e non una banale scelta sbagliata: Letta sapeva che la legge non sarebbe passata perché conteneva al suo interno articoli poco digeribili sull’identità di genere e l’educazione sessuale nelle scuole. Una sconfitta, dunque? Non proprio: il Pd ha potuto godere di un ampio spazio di visibilità nei talk show e sui social. In quel caso sarebbe stato facilissimo arrivare a un compromesso con le opposizioni, dal momento che i numeri reali di appoggio non c’erano, e la legge sarebbe passata con qualche ritocco.

Ma Letta ha scelto la politica della comunicazione: creare un evento che possa contare sull’ovvio sostegno di una opinione pubblica buonista, per portarlo a fallire. Per colpa di chi? Ovviamente per colpa di chi gli ha votato contro nel segreto del voto segreto, concesso dalla Presidente Casellati. È una tecnica: io sposo una causa persa, la rendo immangiabile e quando viene respinta grido alla malvagità umana. Può funzionare non è detto, ma può portare consenso.

La politica ovviamente cerca consenso, perché la base della democrazia è il consenso dei cittadini che sperano di poter indicare il governo più desiderabile. Ma da molti anni il consenso non serve per esprimere un governo e un leader – l’ultima volta fu quello di Berlusconi – ma per acciuffare situazioni ed eventi occasionali che possano portare un incasso televisivo e di social. Il che vuol dire che la politica tende a polarizzarsi su iniziative occasionali o dettate dalle circostanze per mietere il maggior consenso possibile, relegando in secondo piano gli atti politici legati a una “vision”, cioè ad un progetto di società elaborato come progetto che determina l’identità di un partito. Gradualmente sono del tutto scomparsi i progetti di società, sostituiti da una geometria variabile di occasioni prêt-à-porter, cotte e mangiate, che possano immediatamente trasformarsi in like, insulti, scambio di accuse roventi e teatri televisivi. Naturalmente una tale componente è sempre esistita e fa parte essa stessa della ragion d’essere della politica ma un conto è una politica che abbia un progetto e si perda poi occasionalmente per variabili e un altro quello di un partito che aspetta solo le variabili come un giaguaro aspetta la gazzella.

La destra italiana a sua volta si va adattando alla crisi in ordine sparso: Forza Italia che segue un progetto di democrazia liberale erede dell’antico centrismo che ruotava intorno alla Democrazia Cristiana (la quale a sua volta era un piccolo sistema solare di tendenze e leadership diverse ma organizzate) è percorsa da fremiti divisionisti: quelli inclini a farsi assorbire dalla leadership di Salvini o di Giorgia Meloni o quelle che fondano la propria identità sulla resistenza a Salvini e a Giorgia Meloni.

Naturalmente questo sconquasso disarticolante ha adesso un nome e un cognome: Mario Draghi. È un argomento tabù quello che tutti vedono e conoscono: la presenza di un solo uomo con caratteristiche di un antipolitico, tecnico ma con un enorme appeal politico, già famoso nel mondo, ha distrutto i gangli della politica politicante che si è abbandonata ad un nuovo gioco di società: dove lo mettiamo? Al Quirinale o a. Palazzo Chigi per sempre. Si è scoperto così che l’Italia ha una vocazione presidenziale, purché si trovi un presidente. Ma non si deve dire perché è un argomento ideologicamente indecente. L’indecenza si potrebbe occultare accettando la trasformazione di fatto della Repubblica parlamentare in repubblica semipresidenziale alla francese.

A Parigi, pochi lo ricordano, oltre al presidente c’è. anche un primo ministro. Qualcuno ricorda chi sia? No, lo sanno in pochi. Così accade con Draghi. Tutti sanno che se c’è lui, il resto svanisce e la politica stessa si mette in ferie forzate.


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