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Il Covid ha tagliato le code, ma – complice lo smart working – i tempi di attesa per i servizi pubblici si sono allungati.

Diventando addirittura “biblici” al Sud, in particolare per chi – digitalizzazione o meno – si è comunque dovuto recare fisicamente in un ufficio o ambulatorio pubblico. Il tutto con un danno, rispetto all’erogazione delle prestazioni, per i singoli cittadini e per tutto il sistema produttivo.

Partendo dalla condizione pre-Covid – secondo la stima dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre su dati Istat – è come se in Italia tra il 1999 ed il 2019 (ultimo anno disponibile) alla Asl o all’anagrafe si fossero messe in coda 20 persone in più. Persone che – nonostante gli enti statali dispongano ormai di un sito dal quale scaricare moduli e certificati da reinviare digitalmente alle strutture richiedenti – sono state costrette ad andare di persona in un ufficio pubblico, vedendo aumentare considerevolmente il tempo di attesa prima di poter parlare con un impiegato.

Dall’indagine a campione dell’Istat sulle persone maggiorenni che si sono recate agli sportelli della Pa, e che denunciano di aver atteso più di 20 minuti, emerge che nel 2019, a lamentarsi delle Asl sono stati 54,8 intervistati su 100, il 55,2% in più rispetto a quanti si erano trovati nella stessa situazione nel 1999.  Sono 29,2 su 100, invece, gli intervistati in lunga attesa all’ufficio anagrafe del proprio Comune, il 172,9% in più di 20 anni prima.

L’analisi territoriale rileva le maggiori criticità nel Mezzogiorno, dove, per le Asl, i tempi d’attesa più lunghi – già prima del Covid – si registravano in Calabria (70,9 intervistati su 100 sono state in fila più di 20 minuti), in Sicilia (70,9) e Campania (66,7). Negli uffici pubblici dell’anagrafe, le code sono soprattutto nel Lazio (50), in Sicilia (40,1) e in Puglia (33,1).  Al Nord, le regioni più virtuose, tra cui Veneto, Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige.

“Con l’avvento del Covid- spiega la Cgia – le cose sono cambiate. Sebbene non ci sia ancora nessun riscontro statistico, la pandemia ha sicuramente eliminato le code. Ma, come era inevitabile, i tempi di risposta della pubblica amministrazione sono aumentati. Molti uffici pubblici, infatti, hanno stravolto le modalità di accesso ai servizi da parte degli utenti. Complice il ricorso di molti addetti allo smart working, tanti enti hanno chiuso gli sportelli e hanno opportunamente iniziato a lavorare su prenotazione. Per quanto riguarda però alcuni servizi – pensiamo, ad esempio, a quelli resi dalle ASL – il numero degli utenti, a causa delle limitazioni alla mobilità imposte per legge, è crollato, facendo diminuire i tempi di attesa per quelle persone che, comunque, non potevano esimersi dal sottoporsi a un esame specialistico o a un intervento chirurgico. Ma sebbene le code siano momentaneamente svanite, i tempi di erogazione delle prestazioni/servizi si sono allungati. Un problema che, sin dall’avvento della pandemia, tutti avevamo intuito che sarebbe avvenuto”.

E che nel Mezzogiorno, lo ricordiamo, è aggravato da una condizione di partenza nemmeno paragonabile ad altre parti del Paese.

Se a lamentare lungaggini e attese troppo lunghe non sono solo i cittadini, ma anche tutto il settore produttivo – per 9 imprenditori su 10 le procedure amministrative in capo alle aziende costituiscono un problema enorme – per divari territoriali e lentezza del Sud nell’erogazione di servizi primari a cittadini ed operatori economici, l’Italia sconta nell’Eurozona un differenziale di 18 punti percentuali in più rispetto agli altri Paesi, nessuno dei quali registra uno score così negativo.

La questione, secondo la Cgia, non ha una sola spiegazione. Le inefficienze oggettive della pubblica amministrazione non dipenderebbero infatti solo da una cattiva organizzazione degli uffici, ma anche da un aumento smisurato della burocrazia, legato a sua volta al proliferare di leggi, decreti e circolari che oltre ad apparire spesso in contraddizione tra loro e a rendere quasi impossibile fare impresa, complicano l’operatività degli stessi impiegati. Alle prese, oltretutto, con il lavoro da remoto in epoca Covid, che secondo il ministro della pubblica amministrazione, Renato Brunetta, riguarderebbe oltre il 50% dei dipendenti pubblici e che va rivisto – sono parole di ieri del Ministro a margine del forum Ambrosetti a Cernobbio – “per avere in presenza tutto il capitale umano pubblico, fondamentale, se ci sono le condizioni sanitarie di sicurezza, perché il Paese abbia una crescita non solo intensa ma anche duratura”.

“Sperando che nei prossimi mesi – osserva la Cgia – il Covid non ci riservi ulteriori colpi di coda, non possiamo più permetterci che un milione e mezzo di persone lavori da casa, sia perché abbiamo bisogno di una macchina statale che riacquisti produttività sia perché non possono più esserci lavoratori di serie A e di serie B. Se, a pieno organico, nel periodo pre-Covid la nostra Pa presentava livelli di soddisfazione del servizio reso tra i più bassi d’Europa, figuriamoci adesso. Intendiamoci, molti settori pubblici durante la pandemia hanno dimostrato livelli di efficienza straordinari, altri, però, hanno rallentato tremendamente la velocità di erogazione delle prestazioni, spingendo molti cittadini a rivolgersi al settore privato. Cosicché molte persone sono state costrette a pagare due volte: con la fiscalità generale e saldando la fattura ricevuta per il servizio reso da un libero professionista o da un’impresa”.

Linee di intervento efficaci, dunque, dovrebbero viaggiare in più direzioni. Verso la riforma e la digitalizzazione omogenea dell’amministrazione statale e verso la semplificazione di un quadro normativo spesso contraddittorio, che – secondo l’analisi – ha finito per produrre negli anni mancanza di trasparenza, incertezza dei tempi e adempimenti sempre più onerosi e che invece, ove rivisto, sarebbe in grado di dare impulso alla produttività del personale pubblico come del mondo economico ed imprenditoriale.


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