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L’autonomia sanitaria delle regioni ha prodotto nel Mezzogiorno soltanto disastri su disastri, nonché una mostruosa disparità territoriale Nord-Sud. La sanità è sempre più uno strumento propagandistico-elettorale in cui la tutela della salute del cittadino riveste un ruolo marginale. Basta dare un’occhiata a quanto sta avvenendo negli ultimi giorni in diverse regioni meridionali.

CAMPANIA

In Campania la delibera dello scorso 28 dicembre stabilisce i tetti di spesa non per branca, ma per struttura (con vincoli di budget da rispettare) ha fatto saltare il banco. Per la regione Campania l’emergenza pandemica è come se non esistesse. Una follia burocratica che invece di facilitare, in tempi di emergenza pandemica dove la sanità è paralizzata, complica ulteriormente la vita e la sopravvivenza a chi vive al Sud.

Ma cosa è accaduto? In pratica la nuova delibera, la 599, stabilisce tetti di spesa in strutture convenzionate uguali al 2019, quando non esisteva il Covid. Non solo. Quello stesso tetto 2018/2019, a detta della prefettura, nella persona del commissario ad acta Mario Ambrosanio, è insufficiente al fabbisogno. In poche parole, se ti ammali in Campania non hai possibilità: o paghi o muori.

“Serve sinergia tra pubblico e privato”, dice oggi Vincenzo Alaia, presidente della commissione regionale sanità in Campania, che ha voluto una riunione ad hoc sulla famigerata delibera 599.

La delibera porta delle novità sostanziali: fissa un tetto per struttura, dà un budget mensile e (anche se questo punto non è chiarissimo) riporta l’utente al Cup regionale. Ebbene, come pure ha ribadito l’assessore al Bilancio, Ettore Cinque in questo Cup (in realtà ad oggi esiste ma solo se si va fisicamente in ospedale) potenziato «dovranno confluire le prenotazioni sia nel pubblico che nel privato, secondo i criteri della vicinanza territoriale e della minore attesa della prestazione».

Ebbene viene da chiedersi se, come pure dice l’assessore in commissione, il Cup per pubblico e privato, va creato, perché deliberare a dicembre quando questo tipo di struttura che è ancora da attuare? Inoltre si sta verificando che il tetto di spesa fissato mensilmente porta gli utenti a dover rinunciare all’esame in convenzione e doverlo pagare, considerando che gli ospedali sono ancora in emergenza covid, chi può paga, chi non può aspetta il mese successivo o rinuncia. Ed è gravissimo. L’assessore in Commissione aggiunge: “La Regione Campania ha stanziato 560 milioni l’anno, confermando le risorse del triennio precedente, per la specialistica ambulatoriale e, l’anno scorso, 72 milioni aggiuntivi per il recupero delle liste di attese nel privato”, ha ricordato Cinque.

I 72   milioni aggiuntivi non erano però per la genetica, gli esami più costosi e meno rari di ciò che si pensa (amniocentesi, hpv, batteri patogeni in gravide, familiarità per il tumore) e aggiunge e ammette Cinque: “Il sistema che abbiamo conosciuto negli ultimi anni per l’assegnazione dei tetti di spesa per la specialistica ambulatoriale non può considerarsi soddisfacente perché, verso i mesi di settembre/agosto di ogni anno, essi venivano ad esaurimento, ma ciò non dipende solo un problema economico ma anche di sbilanciamento, in questo settore, verso il privato accreditato. La Campania è la quarta tra le regioni che destinano più risorse al privato in questo settore, dopo Lombardia, Lazio, Molise, con il 23/24%. Il settore pubblico deve crescere, ma, in questo periodo storico, a seguito dell’emergenza pandemica, non ci sono state le condizioni affinché crescesse”. La differenza è che da due anni con gli ospedali oberati dalla pandemia è andata ancora peggio e il tetto stavolta si supera il 10 di ogni mese. La coperta resta troppo corta.

Lo stesso assessore ammette: “La delibera sui tetti di spesa mensili di struttura per la specialistica ambulatoriale nel privato accreditato, approvata il 28 dicembre scorso, è un provvedimento provvisorio, che entro il 30 aprile dovremo ridefinire”. Ecco non sarebbe stato meglio far finire la pandemia, aver organizzato tutto (compreso il cup potenziato) e poi partire? Chi coglie nel segno, anche in commissione è Valeria Ciarrambino del Movimento 5 Stelle: “Bisogna riequilibrare l’offerta tra pubblico e privato ma si deve garantire il diritto alla salute. È positivo riordinare i tetti di spesa, ma bisogna definire con efficacia il fabbisogno delle prestazioni”. Già un fabbisogno di cui già non si era tenuto in conto nel 2019, come aveva pure detto il prefetto, Ambrosiano, come commissario ad acta. Inoltre le categorie sono state assolutamente ignorate. “Se lo spirito della delibera è positivo va detto – ribadisce Francesco Emilio Borrelli consigliere di Europa Verde – che non è stato concordato con le categorie e provoca ulteriori disagi ed occorre un lavoro di razionalizzazione per garantire un servizio di qualità ai cittadini”.

Servizio che ad oggi non c’è. Anzi. La situazione attuale ha esasperato ancor di più gli animi. E su questo punto si spacca anche la maggioranza del presidente governatore, tant’è che in commissione il consigliere Diego Vananzoni, lista “De Luca presidente”, ammette: “La distribuzione della spesa su base mensile ha evidentemente provocato dei problemi, perché quello che accadeva a settembre adesso si verifica a gennaio e determina la corsa alle prestazioni all’inizio del mese”. Un dato quest’ultimo palese a tutti, almeno quelli che vivono sui territori. Sulla stessa linea anche la consigliera Maria Muscarà (gruppo misto): “La delibera ad oggi provoca solo problemi enormi di ritardi nell’accesso delle prestazioni e danni ai pazienti”. Già esattamente ciò che nei giorni scorsi ha denunciato il Quotidiano e la Muscarà ammette che proprio qui, in Campania, le percentuali di malattie e morti sono tre volte superiori a quelle di altri territori. Il Pnrn, i soldi che arriveranno dall’Europa, dovranno certo servire a potenziare la sanità pubblica che ha dimostrato durante il covid tutta la sua fragilità, ma prima di allora non si può pensare che gran parte della diagnostica sia a spese del cittadino, visto che le liste di attesa così si allungano. E le prove sono sotto gli occhi anche dei consiglieri di maggioranza della giunta di De Luca.

SICILIA

In Sicilia la sanità fa sempre più gola alla politica ed è ormai da tempo oggetto di un acceso scontro nella maggioranza di centrodestra del governo regionale. Il pomo della discordia? Un tesoretto da 797 milioni. Soldi da programmare subito e da fare piovere sulla Sicilia entro il 2026, scegliendo chi accontentare e chi no, ad esempio sull’indicazione del comune nel quale realizzare uno dei 39 nuovi “ospedali di comunità”. È anche per i fondi del Pnrr sulla sanità che è in atto lo scontro sul ruolo che nella giunta di Nello Musumeci ricopre Ruggero Razza, finito sotto al centro di polemiche per il suo interventismo politico ma anche per l’accusa di voler decidere tutto da solo. Il punto è proprio questo. La Sicilia è terza dopo Lombardia (1,2 miliardi) e Campania (916) per dote in Italia ed entro il 30 giugno deve firmare con il ministero della Salute il Contratto interistituzionale di sviluppo, un documento che contiene una programmazione di massima dell’uso delle risorse. Al centro dello scontro politico ci sono soprattutto gli ospedali e le case della comunità che sono uno strumento preziosissimo in campagna elettorale. In entrambi i casi è prevedibile l’ingresso in scena della politica. A fare gola, inoltre, sono anche i fondi per la formazione, sempre in ambito sanitario.

Un duro attacco al “sistema Musumeci” è arrivato sabato scorso al Teatro Massimo dove il ministro Andrea Orlando si confrontava su Pnrr e Sicilia. A sferrarlo è stato l’esponente di punta di Forza Italia nella sanità, il presidente della commissione all’Ars Rita La Rocca Ruvolo, che alla fine di una settimana ad alta tensione ha lanciato un aut aut al governatore e al suo fedelissimo, l’assessore Razza: «Non accetteremo che si faccia campagna elettorale sulla salute dei siciliani – Questa è un’occasione unica per l’Isola: vigileremo su come verrà investito ogni singolo euro».

CALABRIA

In Calabria un bambino non ha diritto di lottare contro il covid. Nella terra più dimenticata d’Italia si muore perché le terapie intensive neonatali ci sono, ma sono adatte solo per i neonati fino a 30/40 giorni. È deceduta così nei giorni scorsi una piccola di due anni di Mesoraca, nel Crotonese. Quarantotto ore di corsa contro il tempo, di trasferimenti di ospedale in ospedale, fino a raggiungere il “Bambin Gesù” di Roma. Polmoni compromessi, grosse difficoltà a respirare, saturazione critica. Per lei non c’è stato più nulla da fare. Il tempo ti salva la vita, la perdita di tempo ti toglie la vita. In Calabria la sanità è da sempre la grande vacca da mungere, per istituzioni irresponsabili, e per la ‘ndrangheta. Attualmente in Calabria non esiste un’unità operativa complessa di terapia intensiva pediatrica. Nel 2017, con proprio decreto, l’allora commissario alla sanità Massimo Scura aveva disposto l’attivazione di quattro posti di terapia intensiva pediatrica. Come è finita? Come accade sempre in Calabria, non se n’è fatto niente.

Ma non finisce qui. Nel 2020, un altro decreto commissariale in piena pandemia, in questa circostanza recante la firma di Saverio Cotticelli – disponeva la creazione di almeno due posti letto pediatrici nei tre ospedali hub calabresi. Anche in quel caso è finita a tarallucci e vino.  Ma come è possibile che nel 2022 un bambino calabrese debba ancora andare a Roma per essere assistita perché nella terra d’origine non ci sono le strutture adeguate. Non resta che emigrare per curarsi nonostante il 65%delle diagnosi dei pazienti pediatrici vengano fatte in Calabria.

Nelle stesse condizioni di salute, un bambino del centronord vive, quello del Mezzogiorno muore. È una follia a cui bisogna mettere assolutamente la parola fine.


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