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'A Tumbulella di Maurizio Vinanti interpretata in Piazza Plebiscito

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6 minuti per la lettura

All’improvviso ti trovi davanti a un banditore di tombola che legge i numeri come se stesse recitando Shakespeare:
10  ‘E fasule,  nun  ne  magna’  troppi ca ’ poi… 
21  ‘A  Femmena  annura,  ‘a mugliera  ‘e  Gerard
56  ‘A  caruta,  ‘e  che  dulore!”

È nata così – vagabondando per San Gregorio Armeno – ‘A Tumbulella di Maurizio Vinanti. Su tavole polimateriche, fondo a rilievo  e colori acrilici prendono vita  i novanta numeri della tombola  rappresentati dall’artista  secondo la smorfia napoletana. Le tavole  esposte per la prima volta alla fine di novembre del 2019  alla  Galleria Kòine  nella città partenopea, sono   in parte ancora lì per via dell’arrivo della pandemia.  In attesa di altri, nuovi visitatori.

Novanta opere  più una che raffigura l’immagine simbolo della mostra con  una magnifica Piazza del Plebiscito che si trasforma  in un unico grande cartellone per poter giocare mentre un buffo pittore con   tuba in testa, giacca rossa, pennello in mano e secchio di vernice sta dando gli ultimi ritocchi ai magici numeri.
Un lavoro durato tre anni.

Vinanti,  un  toscano   doc   che  sceglie  di  rappresentare  la  smorfia…

«La smorfia è nata a Napoli, ma esiste in tutta Italia. Sono di quelle cose che ti porti dentro. Tante volte ho sentito il babbo, i miei genitori o i nonni dire: “Stanotte ho sognato lo zio che mi diceva…” e la risposta subito era: “Giocalo al lotto”. E la tombola? Non c’era, e ancora oggi non c’è una festività in cui  non ci giochiamo: grandi e piccoli. I numeri della smorfia sono un patrimonio nazionale!».

A San Gregorio Armeno  si è imbattuto in una famiglia che giocava a tombola per strada…

«Sì. È stata una cosa strana e divertente. In realtà per la strada c’era un signore che diceva i numeri e dalle terrazze e in un basso giocavano. Sulla mia presentazione ho semplificato e onestamente metà dei numeri e dei commenti non li ho proprio capiti».

 Quanto  degli  incontri  fatti  a  Napoli  è  poi  finito  sulle  tavole?

«Penso siano quasi tutti  “ispirati” dai miei incontri per le vie napoletane. Per esempio il 63, la Sposa, l’ho dipinta dopo aver visto quasi tutti i matrimoni che casualmente incontravo e tutti, sistematicamente, con la sposa incinta. Il 16, mentre scendevamo dalla funicolare, insieme ad amici, ci siamo trovati davanti una che mostrava a tutti il suo fondoschiena; il 2 è una specie di ritratto di mia moglie; il 42, invece, è finito in quadro quando ci siamo trovati davanti ad una manifestazione in pausa, mentre tutti stavano prendendosi  un caffè… e così via».

Se dovesse scegliere tre numeri per rappresentare Napoli e il Mezzogiorno, quali numeri sceglierebbe?

«Di sicuro l’Uno, l’Italia dell’eterna lotta che deve fare il sud per sopravvivere senza sapere mai quale è  la parte giusta o quella sbagliata, (anche se penso che valga anche per la mia Toscana); 84 la Chiesa: la religiosità, mista alla superstizione legata profondamente nell’animo delle persone. Si può affrontare il mare aperto senza paura avendo la Madonna che ti protegge. La ritengo una cosa tipica e straordinaria. 55, la musica: il cuore pulsante dell’animo del sud. La musica non è contorno o sottofondo ma un modo per esprimere  il proprio animo».

E  per  la  sua  Toscana?

«Per la Toscana è più complicato. I numeri della tombola con cui son cresciuto erano diversi, anche un po’ più volgari. In effetti tre li ho adattati ma fondamentali e rappresentano il cibo in genere. Il 68, la zuppa cotta con la ribollita: il nostro piatto principe della cucina povera. Il 45, il vino buono: con il nostro vino tipico il Chianti e le colline dove nasce. Ma anche con il dio Fufluns che l’aveva portato in Etruria. E per finire il 90 con il mio amato Pinocchio che è un po’ il simbolo nel nostro animo». 

La tombola che cos’è: un gioco d’azzardo, un pretesto per stare insieme  o un passatempo scacciapensieri?

«La tombola per me è solo un gioco per socializzare. Un divertimento e da buon toscano, un modo per prendersi in giro. Non c’è numero che non sia il riferimento personale di qualcuno. Quando ero piccolo invece di dire il numero dicevano – quando possibile – il nome della persona a cui si riferiva. Il 2 veniva detto col nome del più piccolo; l’88, il seno era associato al nome di quella che l’aveva più grosso… e via dicendo».

Quale è stato il numero e quindi il significato che le ha creato più problemi?

«Il numero Uno. Volevo che risultasse in po’ l’imposizione dello stato italiano contro i visionari e i sognatori, ma al tempo stesso che fosse anche una resistenza contro il popolo invasore. Ho trovato un personaggio fantastico da rappresentare: Vincenzo Barone, che ebbe l’ardire di piantare la bandiera borbonica sul Vesuvio!».

Se lei dovesse attribuire un numero al Covid o un disegno cosa gli attribuirebbe?

«Inevitabilmente il 73 l’ospedale…. Il luogo della nostra salvezza. Le pandemie prima devastavano  la gente nelle case dove morivano e s’infettavano. Una strada senza sfondo. Non avevano possibilità. E noi siamo molto fortunati, anche se tanti non lo capiscono».

Ma  lei  poi  ci  gioca  a  tombola?

«Certo  che  ci  gioco… per  le  feste  quasi  sempre.  Quando ero ragazzo andavamo la domenica nel primo pomeriggio a giocare in un circolo del quartiere. Io e qualche amico vincevamo sempre e con quei soldini andavamo al cinema. Finché ci chiesero “gentilmente” di non andare più. Le signore anziane, habitué non volevano più giocare quando c’eravamo noi…».

I Borboni hanno spesso richiesto amministratori toscani per gestire il Regno: che rapporti ci sono tra Toscana e Napoli?

«A me non mi avrebbero mai chiamato. Con i conti e i numeri sono un disastro… Ma comunque anche tanti artisti sono legati a Napoli. A Napoli nacque Gian Lorenzo Bernini, forse, al pari di Michelangelo il più grande scultore italiano. Era figlio di un fiorentino e quando firmava le sue opere, ci metteva  “G.L. Bernini, fiorentino”. Di storia so solo che i Medici (banchieri) e i Borbone hanno avuto rapporti finanziari e spessissimo burrascosi. So che per questo venivano spesso mandati  “ispettori” a controllare le reali situazioni. Ma non sono uno storico, anche se di storia leggo molto».


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