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Antonio Canova, la “Venere italica” (1804-1811)

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Il bianco è il grado zero del colore, un non-colore che contiene tutti i tratti dello spettro elettromagnetico, è l’assoluto attorno al quale ruotano tutte le variabili della cromaticità. È la luce stessa a comprendere tutti i colori, estesi da un capo all’altro della gamma delle radiazioni visibili.

La rivoluzione è avvenuta nel campo della fisica, a partire dal 1600 con Isaac Newton: il modello di rappresentazione del colore varia completamente, sorpassando le teorie aristoteliche. Viene rappresentato un cerchio con il bianco al centro e sulla circonferenza i colori del prisma, con all’estremità il rosso e il violetto e tra di loro l’arancione, il giallo, il verde, l’azzurro e l’indaco.

Nella sfera linguistica dominano due termini latini volti a definire il bianco: albus e candidus. Albus era una parola in netto contrasto con l’espressione ater (un nero da presagio) e veniva usata per indicare il pallore della carnagione: le matrone romane, al fine di rendere più chiaro il viso, adoperavano la cipria che doveva restituire un colore simile all’avorio.

Candidus sebbene esprima in apparenza la stessa tonalità, indica il bianco che splende, al fine di rappresentare un giorno di grande limpidezza e una carica emotiva piena di purezza e lealtà. Il bianco in culture opposte e in periodi storici diversi ha rivestito un doppio significato intorno al tema del ciclo vitale: per i nativi americani, nello specifico per la cultura kerès, simboleggiava il nucleo primordiale della Terra, origine della vita in tutte le sue forme, espressione della continuità biologica.

Anche per i cristiani il bianco è portatore di armonia, Cristo è la luce del mondo che accompagna i credenti che si sono comportarti rettamente sulla Terra in Paradiso. Il bianco diventa a sua volta il colore della gloria e della resurrezione. In più il fiore associato alla purezza era il giglio e veniva sempre raffigurato nella mano della Vergine, come emblema di beata innocenza.

Nel Medioevo invece, il bianco è simbolo di lutto: prima dell’influenza spagnola del nero, Maria Stuarda, la regina di Scozia che fu per breve tempo anche regina consorte di Francia, indossò per esempio abiti bianchi in occasione della morte del marito Francesco II, nel 1560. Nella società romana e medievale essere vestiti di bianco era difficilmente realizzabile, l’utilizzo delle tinte estratte da alcune piante saponarie, di soluzioni a base di ceneri oppure di terra e minerali (magnesio, gesso e biacca) davano scarsi risultati, si ottenevano riflessi grigiastri, verdastri o azzurrognoli, togliendo alle stoffe una parte rilevante di luminosità.

Si dovrà aspettare la fine del XVII secolo per avere la possibilità di sbiancare le stoffe con il cloro o con cloruri, dato che questo elemento chimico è stato scoperto solo alla fine del Settecento. I greci, per acquisire il bianco da sfruttare in pittura e in scultura, si servivano infatti anche della calce spenta diluita in acqua e successivamente frantumata delle terre di Milo e Samo e della creta argentaria. I romani invece, per ottenere il bianco, utilizzavano anche la creta cimolia (proveniente dall’Umbria), la creta selinusia e la cerussa.

Il bianco è una presenza preponderante nell’antropologia fisica, si delineavano così gli Europoidi prima, e in seguito, con accezione razziale, per esaltare il suprematismo di certi popoli. È stato il caso delle guerre tra cristiani e saraceni ad esempio, raccontate spesso nelle chanson de geste, dove la pelle chiara o scura era diventata la chiave manichea per distinguere le popolazioni virtuose da quelle barbare e formate da infedeli. Nelle espressioni quotidiane e nelle locuzioni figurative il bianco si sbizzarrisce: da “dare carta bianca” per suggerire l’assoluta fiducia riposta nel soggetto, accordandogli piena facoltà di agire, o “farsi bianco dallo spavento” per un improvviso pericolo fino a “è come una mosca bianca” per indicare la rarità dell’individuo, e ancora “farsi la notte in bianco” in riferimento alle celebri notti bianche di San Pietroburgo, e più in generale la notte dedicata, in diverse città, a manifestazioni culturali di vario tipo, che prevedono l’apertura notturna di musei, teatri, cinema, negozi, senza dimenticare “matrimonio in bianco” per segnalare un rapporto non consumato.

Ma è nell’arte e nella scultura che il bianco assume il ruolo da centravanti, totalizzante e magnetico in diverse fasi pittoriche della storia. Il marmo bianco di Antonio Canova, esaltato nell’opera de la Venere italica (1804-1811), si manifesta attraverso il solido candore del drappo che avvolge i fianchi della divinità, la cui nudità è in parte nascosta. Robert Campin, di scuola fiamminga, in A Woman, dona al ritratto una compostezza e un’eleganza ascendente, il bianco del tessuto che ricopre il capo della donna conferisce alla tela uno stupore di grande impatto luminoso.

La Signora in bianco e Ritratto di signora in abito bianco (1889) di Giovanni Boldini rappresentano il tema galante della donna in posa per uno dei ritratti alla moda, il gusto aristocratico fin de siècle risalta gli abiti lunghi di taffetas, la pennellata si concentra sul moto dei rasi fini e dei velluti di pregio. Dal Novecento, per alcune correnti, il bianco è il colore dell’assoluto non luogo. Accade con Kazimir Malevic, esponente delle avanguardie russe, attraverso la tela intitolata Quadrato bianco su fondo bianco (1918), le due tonalità di bianco sanciscono una differente modalità di pensiero, una dimensione all’interno di un’altra che stabilisce uno spostamento di visione. Piero Manzoni ed Enrico Castellani furono i due protagonisti italiani che, nell’arte spazialista e concettuale, sdoganarono il bianco. Il primo con Achrome, opere prodotte tra il 1957 e il 1963, superfici bianche che assumono le sembianze di letti sfatti e plissettature orizzontali, il bianco assume spessore e materia. Il secondo compose delle texture accattivanti attraverso costellazioni di chiodi che premevano dal retro la tela. Il bianco domina le forme.


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