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Illustrazione di Roberto Melis

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CAPITA che ci si innamori di una parola e del concetto corrispondente. Una parola che diventa sorta di luogo comune linguistico, sbornia collettiva in forma immateriale. È stato il caso del genuino intorno agli anni settanta e seguenti. Era la contrapposizione al cibo industriale che da decenni imperversava nel nostro paese; il cibo della modernità e del boom economico.

Peccato che quella parola fosse palesemente inadeguata e fuorviante nell’opporre tradizione e modernità. Genuino infatti significa semplicemente aderente a una norma, a un canone. In questo senso, un formaggino spalmabile in un’industria alimentare della Lombardia era “genuino” come una caciotta prodotta in un casolare vicino a un ovile. Inseguivamo la genuinità e quella sfuggiva nel carrello del supermarket  come nei prodotti di venditori ambulanti e più o meno “genuini”.

Ma non è questo che  oggi capita con la parola territorio? Retorica collettiva in formato ecologico affettivo, innamoramento linguistico verso piccole patrie dove sarebbe nascosto il meglio. Certo possibile  e forse vero, forse… Territorio del resto è diventato passe-partout per il riconoscimento  implicito di qualità e bellezza, di un valore culturale certo. Spinosa questione quella di dare forma alla parola territorio, così come ambiente, paesaggio, termini che si confondono tra ecologia, geografia, storia e cultura.

Semplificando brutalmente, si considera territorio una regione le cui qualità naturali, geografiche, paesaggistiche sono un unicum con la sua storia e con la presenza  umana sedimentata  nei tempo: un territorio è sempre un distillato profondo del laborò dell’uomo e delle sue comunità.  

Così, aldilà di ogni retorica, oggi non tutti i territori posso dirsi tali: evocare “il territorio” così  come una volta “il genuino” è fuorviante, perfino falso.  In mezzo ci sono stati decenni di un frenetico sviluppo e di un’economia di mercato – gli anni del boom economico – che hanno trasformato per sempre vaste  aree del nostro paese, dal nord al sud, cementificandone il suolo, industrializzandole, imbruttendole, inquinandole, oppure desertificandole. In molte aree del nostro paese “i territori’ sono ridotti a piccole enclave assediati da una disordinata modernità.

Con un’unica grande eccezione che da nord a sud attraversa tutto il paese; un enorme territorio reso deserto demografico dagli anni del boom economico, emarginato economicamente, diventato enorme parco naturale senza bisogno di alcun confine, eppure nonostante tutto ancora “territorio “ in larga parte omogeneo e riconoscibile, perché loro malgrado, gli Appennini,  a dispetto della recente sorte, hanno conservato storie, tradizioni che inaspettatamente oggi possono essere risorsa culturale ed economica per un mondo che, uniformato a un solo modello, avverte le sue fragilità e scopre di avere  “fame di storie”.

Per questo motivo guardare il mondo dagli appennini può avere un senso per tutti i territori reali o ormai solo immaginati.


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