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Lia Levi

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Lia Levi, classe 1930, scrittrice, giornalista per trent’anni del periodico mensile di cultura ebraica “Shalom”, dal 1943 al termine della guerra fu tenuta nascosta insieme alle sorelle nel collegio romano delle Suore di San Giuseppe di Chambéry. E quindi è a tutti gli effetti una sopravvissuta. Da anni aiuta a tenere viva la memoria della Shoah non solo attraverso i suoi libri, ma anche con incontri, dibattiti, interventi sui giornali e in televisione.

Dottoressa Levi, in Italia è radicata una convinzione: che lo sterminio degli ebrei fu un crimine esclusivamente tedesco. È come se noi italiani non c’entrassimo nulla. Come interpreta questo stato di fatto, che è allo stesso tempo una rimozione e una distorsione?

«Lei sta stoccando un punto centrale di quello che vado dicendo da anni. Anche perché come persona io sono stata vittima delle leggi razziali, e fortunatamente appartengo alla categoria degli scampati, dei sopravvissuti. Gli scampati sono quelli che si sono trovati sì in quel terribile punto delle geografia e della storia, ma che in un modo o nell’altro ce l’hanno fatta. Ho iniziato a scrivere di questa memoria negli anni ’90, quando non si parlava quasi più delle leggi razziali, o addirittura venivano negate. Non aver affrontato questa pagina, perché l’Italia l’ha messa tutta in conto ai tedeschi, è stato un modo per non prendere coscienza della propria storia. Non aver voluto guardare in faccia la realtà è stato un atto di grande immaturità da parte della politica. Gli italiani hanno voltato una pagina senza averla letta. Non ci sono solo i lager e i forni crematori, che sono quasi irraccontabili per atrocità, ma anche le leggi razziali, che non sono state una piccola cosa, poiché hanno contribuito in maniera determinante alla Shoah».

L’opinione media diffusa è che le leggi razziali promulgate nel 1938 non espressero un vero sentimento antisemita degli italiani, ma che furono una sorta di concessione politica all’alleato tedesco.

«Non sono una storica, ma anche gli storici concordano nel dire che le leggi razziali sono state un percorso autonomo del fascismo, compimento di una campagna razziale iniziata contro l’Africa. “La difesa della razza”, la famigerata rivista razzista del regime, conduceva in parallelo campagne sia contro gli ebrei che contro gli africani. Parlo anche per esperienza personale. In Germania la maggioranza dei tedeschi fu contro gli ebrei, gli italiani invece rimasero freddi, non reagirono. C’erano sì imprecazioni e insulti contro gli ebrei da parte dei fascisti, ma in generale la popolazione non ha reagito. Eppure non ha nemmeno protestato. Ecco, gli italiani non hanno protestato, contro le leggi razziali».

Come ricorda, cosa pensa, cosa prova se ripensa al suono della lingua tedesca nella Roma occupata dai nazisti?

«Io ero una bambina, e nelle leggi razziali ci sono cresciuta dentro. E devo dire che sono state molto più dure di quanto si vada dicendo, perché noi ebrei eravamo dei non-cittadini, cittadini senza diritti. Quindi sono state molto dure, ma non comportavano l’eliminazione degli ebrei. Il terrore è scoppiato con l’arrivo dei tedeschi. Anche lì però, siccome l’ottimismo fa parte dell’istinto di conservazione, noi ebrei speravamo che l’Italia fosse al riparo, perché in Italia c’era il Papa, e poi c’era stata la richiesta dell’oro, e molti ebrei ci avevano creduto. Invece è stato orrendo. Nella Roma sotto il tallone tedesco era tutto “verboten”, tutto vietato. Io ero nascosta in un collegio di suore, ero un po’ appartata, ero piccola, e quindi grandi accenti tedeschi non ne ho sentiti, ma l’orrore a Roma si respirava in ogni angolo».

Com’è stato all’indomani della guerra il suo rapporto con i tedeschi e con la Germania?

«Avendo fatto per trent’anni la rivista “Shalom”, ho avuto modo di conoscere molti giornalisti tedeschi, che venivano anche in redazione. Erano tormentati, lacerarti, si mettevano a piangere. Ci dicevano: “Se non ci volete, cacciateci pure, potete farlo, non ci offendiamo”. Questo dolore dei tedeschi io l’ho sentito molto forte, e tutto questo mentre l’Italia non faceva i conti con il proprio passato. Sono stata più volte a Berlino, e devo dire che Berlino è una città che chiede scusa. Ci sono musei, monumenti, luoghi della memoria. È una città, ripeto, che ha chiesto scusa. In Italia non ha mai chiesto scusa nessuno. Il Vaticano sì, lo ha fatto, ma perché l’Italia non ha chiesto scusa per le leggi razziali? La risposta che mi è stata data da alcuni politici è questa: la Costituzione italiana recita che l’Italia è fondata sull’antifascismo, e questo chiude la discussione. Ma le leggi razziali sono un’altra cosa. Ha sbloccato un po’ la situazione il Presidente della Repubblica Mattarella, che per la prima volta ha parlato esplicitamente delle leggi razziali. Ma le scuse dell’Italia non sono ancora giunte».

Complessivamente come giudica il comportamento della Chiesa cattolica durante la Shoah?

«Dividerei il problema in due. La reazione della Chiesa per salvare gli ebrei è stata molto forte. È non è stata spontanea come si dice, ma organizzata, da Assisi a Genova a Roma. Non sono state iniziative dei singoli conventi. Nel collegio dove stavamo noi per esempio le suore venivano e ci dicevano magari che bisognava aumentare le precauzione, perché così aveva informato il Vaticano. Diverso è il discorso sul silenzio del Papa. Anche perché è stato molto grave, questo silenzio. Prima della retata del 16 ottobre del 1943 Berlino aveva avvertito l’ambasciatore a Roma dell’intenzione della retata, e l’ambasciatore a Roma aveva risposto che temeva una reazione del Vaticano. Anche i tedeschi temevano una reazione del Papa. E invece il Papa tacque. Nemmeno una parola».

Nel collegio dove si trovava arrivarono gli echi della retata nel ghetto ebraico di Roma?

«Altroché. Da subito. Dal giorno dopo è cominciata ad arrivare gente disperata, bambine, gente che era riuscita a scappare o che voleva mettersi in salvo. Quindi l’eco è arrivata subito. E da quel momento è cambiato tutto».

Lei porta un cognome impegnativo. Posso chiederle che idea si è fatta del suicidio di Primo Levi?

«Guardi, io ho parlato anche con la sorella di Primo Levi. La cosa più sciocca che hanno detto è che si è suicidato perché nessuno lo stava più ad ascoltare. Non è vero. I suoi libri erano tradotti in tutto il mondo. Da quello che ho capito io, Primo Levi si è tolto la vita a causa di una fortissima depressione».

Quanto è stato duro per i sopravvissuti il suo suicidio? Quanto ha pesato?

«È stato bruttissimo. Perché per un attimo ha tolto la speranza. Ma non c’è altra spiegazione: a uccidere Primo Levi è stata una fortissima depressione»

E ora? Ora che i testimoni non ci saranno più cosa accadrà?

«La funzione dei testimoni è insostituibile. Lo sa bene chiunque ne abbia ascoltato uno. Gli anni passano, e i testimoni saranno sempre di meno. La trasmissione però avverrà attraverso la creatività letteraria. Non basta la testimonianza, ci vuole la forza della letteratura. Primo Levi ha detto che vale più il diario di Anna Frank che testimonianze rimaste nell’ombra. Con la creatività il messaggio passa con una forza straordinaria, perché la testimonianza da sola non basta. Quando non ci saranno più i testimoni diretti ci sarà la letteratura a tenere viva la memoria della Shoah».

Capita anche a lei ciò che capitava a Primo Levi, ovvero di essere approcciata soprattutto come testimoni anziché come scrittrice? Le pesa questa “condanna”?

«Certo, un po’ sì. Mi fanno sempre domande storiche, anche se io non sono una storica. Quando presento i miei libri si parla sempre di storia, ma io vorrei anche parlare dei miei personaggi, delle mie storie. Ma è un peso che porto consapevole dell’importanza che ha tenere viva la memoria della Shoah. Del resto anche Primo Levi per anni è stato considerato solo un testimone, nonostante fosse un grande scrittore».


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