X
<
>

Ragnhild Hveger, illustrazione di Roberto Melis

Condividi:
5 minuti per la lettura

La prima volta Raghnild era troppo giovane, eppure fu l’unica nella quale conquistò una medaglia olimpica: l’argento nei 400 stile libero del nuoto a Berlino ’36. Fu dunque “la prima delle sconfitte” come si dice, a smentita dell’altra banalità, “l’importante è partecipare”. Vinse la formidabile nuotatrice olandese Hendrika Wilhelmina Mastenbroek, detta Rye, che aveva solo un anno di più e che era allenata da una donna, Maria Johanna Braun che tutti chiamavano “Ma”, che stava per mamma giacché aveva allenato sua figlia per i Giochi del’28 portandola sul podio, trattava le allieve con durezza di madre che non fa sconti e le nutriva con una dieta da lei inventata, fatta di fagioli e speck.

Rye aveva solo un anno più di Ragnhild ma già una consolidata esperienza vincente. La mise a frutto a Berlino, prendendosi quattro medaglie, tre erano d’oro, prima donna nella storia a riportare a casa il poker sul podio, anche a considerare tutti gli altri sport. Willy Daume, il presidente del Comitato organizzatore delle “Olimpiadi di Hitler”, essendo politicamente restio ad assegnare il titolo a Jesse Owens, che aveva vinto pure lui quattro medaglie e tutte d’oro, ma era di pelle nera (“Un negro, mein Fuhrer!”), riservò a Rye la massima investitura: dichiarò Rye “imperatrice di Berlino”.

Ragnhild Hveger era danese, come la Sirenetta che dà il benvenuto nel porto di Copenhagen, a imperitura gloria di Ariel, quella della fiaba di Andersen, e di Eline Eriksen, la moglie dello scultore che gli fece da modella per l’opera commissionata a inizio Novecento dal rampollo di Carl Jacobsen, il birraio più famoso del momento, quello della birra Carlsberg. Il giovane era rimasto impressionato dalla trasposizione della fiaba in balletto e volle rendere eterna la sua emozione. Nel tempo non tutti apprezzarono: vandali e precursori della “cancel culture” procedettero alla decapitazione della statua o alla amputazione di un braccio.

Ragnhild viene considerata da molti “la più grande nuotatrice di tutti i tempi” in quelle discussioni perpetue sui campioni (Coppi o Merckx? Pelè o Maradona? Owens o Bolt? Schumacher o Hamilton? Agostini o Valentino? Su Michael Jordan non si discute) che fanno il sale dello sport chiacchierato. Ragnhild è un nome da raffinati intenditori, proprio perché non figura tra i medagliati in oro alle Olimpiadi. Lei non le ha vinte mai. Dopo quell’argento iniziale, la Seconda Guerra Mondiale cancellò oltre a milioni di vite umane e decine di città bombardate, anche le edizioni olimpiche del 1940 e del 1944, che sarebbero state a portata d’anagrafe della Hveger.

La ragazza danese, che prima dello scoppio della tragedia aveva vinto tre medaglie d’oro agli Europei di Londra nel 1938, si “consolò” in quegli anni bellici stabilendo 42 primati del mondo su tutte le distanze dello stile libero dai 200 metri in su (e uno anche nel dorso): a prendere in considerazione solo l’anno solare 1941 si scopre che Ragnhild Hveger era detentrice di 19 record mondiali.

Quando i Giochi ripresero, a Londra nel 1948, la Hveger era “troppo nazista” per essere ammessa: la scusa ufficiale per non portarla alle Olimpiadi dalle quali vennero esclusi i “paesi canaglia” ante litteram, la Germania e il Giappone, fu che nel frattempo la Hveger era divenuta “professionista”, avendo lavorato come istruttrice di nuoto, perché bisognava pur mangiare, prima per i soldati tedeschi a Kiel e poi per i civili in Svezia. Una professionista ai Giochi? Vade retro, Satana!

In realtà era che Ragnhild era stata come una “ragazza copertina” per la propaganda filonazista nella Danimarca occupata: suo padre, un manovratore di treni, era diventato un personaggio di spicco nel Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori danesi; suo fratello combatteva nell’esercito tedesco e Ragnhild aveva sposato un ufficiale della Wermacht: ce n’era abbastanza, in un Paese che aveva cercato di opporre la propria resistenza a Hitler.

Ne era anima e simbolo lo stesso re di Danimarca, Cristiano IX, il quale quando fu imposta la stella gialla a marchio degli ebrei la indossò all’occhiello delle proprie giacche e la esibì ogni giorno, durante la sua passeggiata a cavallo per le strade di Copenhagen, che divenne una quotidiana e silenziosa manifestazione di resistenza, come tale vissuta e ammirata dai sudditi. Il re, una volta, vide la bandiera nazista sul palazzo del Governo danese: convocò a Palazzo il capo degli invasori e gli ordinò di ammainarla. Il tedesco disse “Nein” e il re replicò: “Andrà un soldato danese a tirarla giù”. Il nazista: “Gli spareremo in testa”. Il re: “Quel soldato sarò io”. Il nazista fece tirare giù la svastica.

In questo clima, per la nazista Ragnhild non c’era spazio nella squadra della Danimarca 1948, che pure contava 162 atleti, di cui 18 donne. Così la “professionista” Ragnhild fu condannata a due anni di purgatorio, al termine dei quali sarebbe stata di nuovo eleggibile come “dilettante”. Ma intanto l’età avanzava. Così a Helsinki ’52, quando la Hveger aveva ormai quasi 32 anni, che a quei tempi che non erano ancora quelli di Federica Pellegrini per le ragazze del nuoto era l’età di Matusalemme, Ragnhild riuscì sì a qualificarsi ma non andò oltre il quinto posto nei “suoi” 400 stile libero e fu ai piedi del podio, quarta, con la staffetta 4×100 dello stesso stile. Nella gara individuale fu in testa per i primi 300 metri poi gli anni ebbero il sopravvento: la vincitrice, l’ungherese Gyenge, ne aveva 19, la seconda, l’ingherese Novak, 22, la terza, l’americana Kawamoto, 18, la quarta, l’americana Green, 19.

Così finì la carriera in vasca di Ragnhild Hveger: le restavano, ancora in vigore, i suoi record mondiali. Quello dei 200 stile libero “tenne” fino all’avvento, nel 1956, di una ragazza australiana che aveva appena un anno quando Ragnhild aveva stabilito il suo: si chiamava Dawn Fraser. La rivista Swimming World ha messo Ragnhild fra i 10 migliori nuotatori del Novecento: è la sola senza una medaglia d’oro olimpica.


La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.
Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  
Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.
ABBONATI AL QUOTIDIANO DEL SUD CLICCANDO QUI.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE