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Giuseppe Sinigaglia

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Il “Sina” era nato sul lago di Como: non su quel ramo famoso, ma sulla “riva di brutt”, dalle parti di Villa Geno, che adesso è un ristorante. Un ristorante, o forse semplicemente una trattoria che si chiamava Caprera, era il locale che gestivano Antonio Sinigaglia e Antonietta Porta, i genitori che nel 1884 misero al mondo Giuseppe, un pupone che, cresciuto sarebbe stato alto due metri e pesante un quintale, una montagna per quei tempi. Un bel gigante, nonostante la nomea del luogo natio.

La “riva di brutt”, d’aktra partem non faceva riferimento alle caratteristiche fisiche degli “indigeni”, ma piuttosto allo status sociale degli stessi, uno status proletario di pescatori e pescivendoli, scaricatori di porto e d’altri faticosi mestieri, contrapposti a quei fighetti azzimati che passeggiavano sulla riva di fronte, la “riva di bell”, dalle parti di Villa Olmo, che deve il suo nome a un vecchio albero che non c’è più e che ospitò, come molte altre case in tutta Italia, Giuseppe Garibaldi. Che ci si trovò bene, tanto da chiedere in sposa la figlia del padrone di casa, Giuseppina Raimondi: la sposò ma ripudiò il giorno stesso delle nozze, saputo dei tradimenti reiterati di lei, perfino alla vigilia del matrimonio.

Il “brutt” Giuseppe Sinigaglia venne su pure “cattivo”: a scuola, al Caio Plinio, le insufficienze erano di routine (specie in tedesco e in composizione) e l’insegnante di matematica lo buttava spesso fuori dalla porta, almeno fin quando il ragazzo non scardinò la stessa togliendola dagli stipiti. Poi non andò più. Certo la forza non gli mancava. Lo adocchiarono quelli della Ginnastica Comense e Sinigaglia si ritrovò fra i giovani che in quella società praticavano gli sport più diversi: a cavallo del Novecento quasi tutte le società sportive si chiamavano ginnastica ma facevano riferimento a discipline atletiche d’ogni tipo.

Il ragazzo amava il canottaggio, ma non disdegnava la lotta né la ginnastica; e neppure le risse che s’accendevano dopo gli sfottò. La società decise di espellerlo insieme con altri atleti. Depennati. Non si persero d’animo ed andarono, armi e bagagli, a un circolo di canottaggio che stava proprio a lato della trattoria Caprera. Anzi, l’armo con Sinigaglia lo chiamarono proprio “Depennati”. Non mancava l’ironia a quei ragazzi. Che vivevano d’allegria e di bravate, frequentando le osterie e il bordello. Si racconta che qui una certa Ida, che vi lavorava, avesse detto alla maitresse: £Se viene il ‘Sina’, con lui lo faccio gratis”.

Né mancarono loro le vittorie. Il “Sina” spopolava “per terra e per mare”. Divenne campione italiano di lotta greco romana, categoria +80, proprio nell’edizione di Como del 1905 e, contemporaneamente, dominò, in varie combinazioni d’equipaggio, specie dopo aver formato coppia con Teodoro Mariani, che aveva due anni di più, compagno di scuola (ma meno “bullo”: lui il corso di ragioneria lo concluse positivamente al Caio Plinio). I Depennati vinsero gare storiche, come le regate internazionali di Lucerna, Parigi o Strasburgo, e Mariani e Sinigaglia, a volte nel singolo, una volta insieme (sul lago di Como) divennero campioni d’Europa. Sinigaglia in carriera conquistò otto medaglie continentali.

Ma il “giorno dei giorni” Giuseppe lo visse il 4 luglio 1914 a Londra sul Tamigi e precisamente a Henley-on-Thames, quando si disputò la regata Diamond’s Sculls, categoria singolo, eliminazione diretta, presenti il re Giorgio V e la regina Mary, segaligna lady che vestiva solo di bianco o nero e quando si concedeva al buonumore del colore di merletti e trine osava il grigio o il blu, mica come quella “scapestrata” della nipote Elisabetta II che adorava gli abiti e i cappelli pastello.

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Sinigaglia era a bordo di un armo chiamato “Selvaggio”, scafo di legno lungo otto metri e ottanta centimetri, e tutti, compresi re e regina, si aspettavano che l’idolo britannico, Colin M Stuart, facesse un solo boccone del gigantesco canottiere italiano. Andò all’opposto e vinse il “Sina” che tenne a bada l’enfant du pays dal primo all’ultimo metro del Reach Henley, come era chiamato quel tratto dritto del grande fiume. La Coppa d’oro fu del “geniale gigante italiano”, come definì Sinigaglia il “New York Times” che copriva l’evento, certificandone l’importanza internazionale.

Però non erano tempi per godere troppo di queste gare sportive per la “meglio gioventù” d’Italia e d’Europa tutta e del mondo. Alla fine di quel mese di luglio, il 26, il giovane studente serbo, il diciannovenne Gavrilo Princip, sparò a Sarajevo i colpi d’arma da fuoco che uccisero l’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando e la moglie Sofia e fu la Grande Guerra. L’Italia traccheggiò qualche mese ma poi il 24 maggio 1914 “il Piave mormorò”.

Lo ascoltarono anche i Depennati, che s’arruolarono volontari. Teodoro Mariani e Giuseppe Sinigaglia non tornarono più: Teodoro morì il 2 agosto 1916 colpito dalle schegge di un bombardamento sul Monte Zebio, Il “Sina”, invece, il tenente del Secondo Reggimento dei Granatieri di Sardegna Giuseppe Sinigaglia, otto giorni dopo, il 10 agosto 1916, venne falciato da una sventagliata di mitragliatrice mentre andava all’assalto per la conquista della Cima Quattro del San Michele, sul Carso, La conquistò, ma con essa anche la medaglia d’argento al valor militare. Alla memoria.


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