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di ROBERTO NATALE

E’ preziosa per tutta l’informazione italiana, la scelta fatta dal “Quotidiano della Calabria” per questo 8 marzo. I volti e i nomi di Giuseppina, Maria Concetta e Lea – che quest’anno accompagnano le mimose – non parlano soltanto della volontà della vostra Regione di daresegue dalla prima pagina

un’immagine di sé combattiva e positiva. Quelle tre storie chiamano in causa pesantemente anche noi giornalisti: ci costringono a riflettere sulle nostre scelte professionali, sui valori e i criteri che ci guidano, sull’idea che abbiamo della cronaca, sulle basi da dare al nostro rapporto con l’opinione pubblica.
Sono tre nomi che si fanno largo a fatica, nella stampa e nella tv nazionali: hanno incontrato fin qui un’attenzione episodica (tranne rare eccezioni), una trattazione discontinua. C’è un raffronto che trovo imbarazzante, e che non riesco ad evitare. Penso al delitto del quale è stata vittima Sarah Scazzi. Il processo non era ancora cominciato, e già eravamo stati alluvionati da migliaia di ore di trasmissione e da tonnellate di articoli. Di Avetrana, di quel villino, di quel garage, di quel pezzo di campagna, sappiamo tutto da subito. Sappiamo fin troppo, al punto da essere entrati in una sorta di perversa familiarità mediatica con “zio Michele”, Cosima, Sabrina. Una tragedia che la nostra informazione ha scelto di far diventare storia nazionale.
Di Lea Garofalo, invece, ricordo pochissime immagini. Non sono affatto certo di saperne individuare con precisione il volto. Un sussulto di attenzione – quasi involontario – c’è stato a novembre, perché il Presidente della Corte è stato nominato capo di gabinetto del Ministro della Giustizia Paola Severino. Per il resto, non c’è paragone tra l’affollamento di telecamere e taccuini sulla vicenda pugliese e la solitudine nella quale lavora chi segue le udienze del processo per una donna sciolta nell’acido. Due delitti egualmente efferati, se è lecito fare una comparazione degli orrori. Eppure nel primo caso si tratta di una vicenda privata: terribile, ma privata. Nel caso di Lea è invece un dramma pubblico, perché parla di come la criminalità organizzata sconvolga la vita di tante famiglie e penetri nel tessuto di un intero Paese, oltretutto spazzando via l’illusione che ci siano isole felici o zone al riparo.
Dovremmo saperlo, come giornalisti, quale criterio scegliere per attribuire alle notizie maggiore o minore importanza: dovrebbe essere la rilevanza sociale di un fatto, cioè l’estensione del fenomeno, il numero delle persone che coinvolge e colpisce. Non c’è dubbio – non dovrebbe esserci – che la storia di Lea abbia un significato più generale di quella di Sarah. E invece scegliamo le vicende da illuminare in base al grado di attenzione morbosa che possono suscitare: farà bene ai dati Auditel e alle vendite in edicola. Anche se non fa affatto bene alla nostra autorevolezza di giornalisti: forniamo pettegolezzi buoni ad eccitare la curiosità, anziché aiutare l’opinione pubblica a concentrarsi sui problemi veri della nostra società. Un circolo vizioso, che iniziative come questa del “Quotidiano” aiutano a rompere. Un grande grazie a voi, e buon 8 marzo.

presidente Fnsi (Federazione nazionale stampa italiana)

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