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POTENZA – La luce sugli omicidi irrisolti e certi insospettabili «legami criminali». Ma prima ancora un vero pentimento, in ginocchio dai tanti che a causa sua hanno versato «fiumi di lacrime», implorando per avere il loro «perdono».

E’ quanto chiede Don Marcello Cozzi, vicepresidente nazionale di Libera, nomi e numeri contro le mafie al boss potentino Renato Martorano. Il sacerdote delle mille battaglie per la legalità e la verità sui casi più oscuri della recente storia lucana ha deciso di replicare con una lettera durissima al “no” altrettanto duro opposto da Martorano agli inquirenti della Dda di Potenza.

Negli scorsi mesi era infatti partita un’offerta di collaborazione con la giustizia per l’uomo a lungo considerato «il massimo esponente della ‘ndrangheta in Basilicata» (come riportato in esclusiva dal Quotidiano della Basilicata nell’edizione di ieri, ndr).

Il tentativo era stato condotto dai militari del Ros dei carabinieri e dal pm Francesco Basentini, ed è culminato con un incontro a Roma. Ma una volta di fronte agli investigatori, gli stessi che ad aprile dell’anno scorso lo hanno fatto condannare in via definitiva a 14 anni per usura ed estorsione aggravata, il boss avrebbe reagito stizzito. Prima si è seduto lasciando il magistrato con il braccio sospeso a mezz’aria verso di lui nel tentativo di stringergli la mano. Poi ha cominciato a rimproverarlo per la convocazione dalla sua cella nel supercarcere di Cuneo, dato che quella trasferta “fuori programma”  avrebbe potuto comprometterlo agli occhi dei compagni del reparto 41bis, un centinaio di esponenti delle principali organizzazioni criminali italiane, perdipiù mettendo a rischio i suoi cari a casa. 

«Renato Martorano hai ragione». Gli scrive allora Don Marcello Cozzi. «Come ti si può chiedere di pentirti? Non è una cosa automatica. Si tratta di riconoscere i propri sbagli, di rinnegare quello che si è stati fino a poco tempo prima, di prendere la distanze con la vita che fu. Si tratta di riconoscere dinanzi a se stessi e poi di dire agli altri che la persona di ieri, quella che si è macchiata di una serie innumerevole di crimini, non esiste più, è scomparsa, ha finito di essere, e quella che c’è oggi è totalmente altro».

Il sacerdote non si sofferma più di tanto sul senso vero del pentimento («Di sicuro non è questo quello che ti hanno chiesto i magistrati potentini. Loro, come chiunque di noi, sanno bene che il pentimento è un cammino complesso, tortuoso, lungo, e i suoi tempi fanno parte del mistero che c’è in ogni uomo. Anche nei mafiosi»). Ma rinnova il loro invito a collaborare con la giustizia («la cosa più ragionevole di questo mondo, per uno che vive nelle tue condizioni), a dire tutto quello che sa «sugli ultimi trent’anni della vita criminale di questa regione, di svelare i segreti di quegli omicidi e di gettare luce su certi legami criminali». Con la resa – implicita me neanche tanto – «dinanzi all’evidenza di una vita che ormai non ti appartiene più», e alla consapevolezza «una volta per tutte che se non sei mai stato nessuno prima (anche se tu pensavi il contrario) figuriamoci se oggi puoi contare qualcosa».

«Ti hanno chiesto di accettare l’evidenza di una sconfitta totale del tuo mondo, di quelle logiche, di quelle regole». Tuona il sacerdote. «E di chiederti infine: che vita è stata la tua e che vita mai potrebbe essere quella che ti aspetta?»

Fin qui le richieste dei magistrati. Poi Don Cozzi torna a schierarsi dalla parte delle vittime, e di chi come i familiari di Tiziano Fusilli ha impiegato più di vent’anni per trovare il coraggio di chiedere giustizia per la sua morte facendo il nome del boss di fronte agli inquirenti. Eppure a febbraio si è dovuto rassegnare a un’assoluzione per lui e per il suo storico braccio destro Dorino Stefanutti, per insufficienza probatoria. 

«Ecco perché io, noi – conclude l’animatore di Libera Basilicata – non ti chiediamo semplicemente di collaborare ma di pentirti nel vero senso della parola. Di inginocchiarti dinanzi ai tanti ai quali hai fatto versare fiumi di lacrime e di chiedere perdono».

Già a giugno dell’anno scorso il sacerdote aveva scritto una lettera indirizzata a Martorano chiedendogli conto proprio degli indizi che lo legavano alla morte del giovane colpito a morte da un commando in motocicletta. «Non sarebbe male – diceva – portarti il conto almeno degli ultimi trent’anni. Delle tue amicizie ‘ndranghetiste, dai Mammoliti ai Pesce, dai Piromalli agli Alvaro e i Macrì; del clan con il quale hai sporcato la nostra regione; delle tante lacrime che tu e i tuoi scagnozzi avete fatto versare strozzando la gente con l’usura e avvelenando tanti con la droga. Qualcuno dei tuoi uomini diceva di te: “è il più saggio di tutti, lui è la mente”. Anche di questo ti chiediamo conto: di aver fatto passare la criminalità come saggezza, come rispetto, come onore».

Saggezza, rispetto e onore criminale. Come quello che ancora trasuda da ognuno dei suoi gesti.

l.amato@luedi.it

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