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SI CHIAMA Silvana Caruso, ha 44 anni ed è di Vallefiorita, paesino di circa mille anime in provincia di Catanzaro. E’ l’Espresso a raccontare la sua storia (a questo link). La storia di un’aggressione, dura, senza pietà. Silvana, infatti, qualche settimana fa, è stata malmenata da un vicino di casa mentre altre persone la tenevano ferma. Il motivo? E’ lesbica. E tanto è bastato ai suoi aggressori per scaricarle addosso tutta la furia di cui sono stati capaci: una testata in volto, colpi ai rendi, alla testa, anche con l’aiuto di oggetti trovati a caso.

«Ero con la mia compagna al telefono sul balcone – racconta Silvana al giornalista dell’Espresso Simone Alliva – fumavo una sigaretta. A un certo punto sento aprire la finestra del primo piano, io abito al quarto, e qualcuno urla: “Lesbica schifosa ti dovrebbero ammazzare”. La mia compagna dall’altro lato del telefono chiedeva spiegazioni. Non so, non capivo. Poi ancora: “Lesbica di merda quando ti prendo ti sparo in fronte».

E’ a quel punto che Silvana commette l’errore fatale. Decide, cioè, di andare a chiedere spiegazioni a domicilio. Esce dal suo appartamento e va a chiedere spiegazioni a chi poi passerà dalle parole ai fatti: «Entro, lo raggiungo. Chiedo spiegazioni e ricevo una testata in faccia. La moglie chiude la porta di casa a chiave. Ci sono altre persone in casa che mi raggiungono, mi bloccano la schiena, il braccio, la moglie cerca di togliermi il cellulare dalla mano e dall’altra parte Marzia, la mia fidanzata sente tutto. Così inizio a urlare: “Chiama i carabinieri perché mi stanno ammazzando”».

Appena riesce a liberarsi chiama i carabinieri: «Aiuto mi stanno ammazzando». Dall’altra parte del telefono il carabiniere le ordina di uscire subito da quella casa ma la porta è chiusa a chiave. Si fa mettere in vivavoce: «Fate uscire subito la signora» urla. La porta si apre e lei scappa.

Ma non è ancora finita. Perchè l’incubo ha un’altra faccia. Silvana decide di denunciare ma a quanto racconta i carabinieri non la prendono sul serio e i vicini negano ogni cosa. «Dopo essere stata dalla guardia medica ho fatto la denuncia e il carabiniere rideva. Mi diceva: “ma dai sembra un film, sono cose da vicini che possono succedere”. Sono esplosa. Con tutte le botte che ho preso. La frattura del setto nasale, un trauma cranico. Che poi non sono state solo quelle ma le parole, quelle mi hanno distrutto».

Di fronte a questa indifferenza Silvana decide di rivolgersi al comandante della stazione dei Carabinieri. «Sì, lui mi ha creduto. Mi ha dato il suo numero personale ma cosa è cambiato?”» Piange ancora. «Ho paura. Panico da morire. Se devo uscire con i miei cani devo stare per forza al telefono con mia sorella o con Marzia. Piango ogni giorno. Nel cuore della notte vengo risvegliata dalla musica a tutto volume. Il giorno dopo l’aggressione mi hanno tagliato i tubi dell’acqua della macchina».

Silvana vive a Vallefiorita da sei anni dopo essersi trasferita dalla Svizzera. Marzia, la sua compagna, vive a Pisa. E non ha mai avuto problemi. «Mai un insulto, mai uno sguardo cattivo. Per questo quel pomeriggio quegli insulti mi avevano turbato». E non si è pentita di aver denunciato: «L’ho fatto per dare un messaggio alle ragazze lesbiche che vivono su questo territorio. Eppure da quel 20 maggio sto passando l’inferno. Qui nessuno passa per controllare, non c’è vigilanza. Dal paese nessuno mi aiuta. Psicologicamente questa cosa ti ammazza. Le mie giornate non sono più come prima. Lui è sempre lì che mi sussurra: un giorno arriverà la tua morte. L’ho detto ai carabinieri ma non hanno fatto nulla».

Continua ancora l’articolo su L’Espresso: in Italia soltanto nel 2021 sono stati registrati 55 aggressioni omotransfobiche, secondo un monitoraggio delle denunce emerse dai media. È la punta dell’iceberg. Nella stragrande maggioranza dei casi i reati non vengono denunciati: manca la fiducia nelle forze dell’ordine; spesso la vittima non ha il coraggio di denunciare per via del forte stigma sociale cui è sottoposta a causa del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere; o “semplicemente” perché la vittima non è visibile, e cioè le persone con cui si relaziona di consueto non conoscono il suo orientamento sessuale e quindi ha paura che la denuncia possa palesarlo.

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