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Anna Marotta

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In attesa della manifestazione sulla Sanità del 10 maggio, la testimonianza di Anna Marotta, una vita da primario, che racconta la metamorfosi dell’ospedale di Soveria Mannelli


«Abbiamo salvato tante persone: ma quando ne avremo bisogno noi, l’ospedale non ci sarà più». Anna Marotta un po’ scherza e un po’ no quando parla con i suoi ex colleghi. Le hanno detto che Cardiologia è diventata lo spogliatoio per gli infermieri: di sicuro non ama passare davanti all’ospedale di Soveria Mannelli, troppe luci spente. «È stata un’avventura meravigliosa, purtroppo è durata solo una generazione».

C’era una volta una struttura modello dove nascevano 800 bambini l’anno, e l’ortopedia attirava pazienti da altre regioni. «Ci chiamavano l’Università di Soveria». Un ospedale di montagna con vista sul Reventino, punto di riferimento per 40-50 mila cittadini.

Quando Anna Marotta parte dalla sua Decollatura per studiare a Padova, non pensa nemmeno a un futuro in Calabria. Ma l’ospedale di Soveria, con una direzione illuminata, finisce per attirare tanti giovani laureati che arrivano da Firenze, Pisa, Bologna. «Allora la facoltà di medicina più vicina era a Messina. Tornammo in tanti, il contrario di quello che succede adesso. I giovani scappano, anche se hanno fatto la tesi a Catanzaro. Diventò famosa anche Ginecologia, pensi che facevano il parto in acqua, una delle poche al Sud. Venne anche la Rai con la “Vita in Diretta”».

«Diventammo un riferimento per Cardiologia, fra i primi a fare l’ecocardiogramma transesofageo. C’era il laboratorio di analisi a tempo pieno, la dialisi e pediatria. I miei figli andavano a scuola a Lamezia, anche i loro compagni erano nati tutti a Soveria. I professionisti, gli infermieri che lavoravano in ospedale comprarono casa nei paesi della zona. Eravamo una grande squadra, ci aiutavamo a vicenda. Capitava di fare e ricevere telefonate del genere: ‘So che non sei reperibile, ma devo chiederti una mano per un caso grave».

E poi che è successo, dottoressa Marotta? «Hanno messo i conti davanti alla salute, hanno accorpato Soveria a Lamezia e Catanzaro, e ridimensionato i servizi specialistici a poco a poco. Prima di tutti, sono stati trasferiti gli amministrativi e chiusi gli uffici. A un certo punto mi chiesero di diventare primario di medicina generale, altrimenti avrebbero chiuso anche il mio reparto, cardiologia. Eppure facevamo diecimila prestazioni l’anno, abbiamo salvato anche bambini con terapie congenite. C’è un dato che molti dimenticano: le malattie cardiovascolari sono le più diffuse nel mondo occidentale».

«Soveria è un polo economico di valore, con Rubbettino, Sirianni, Leo, le aziende dell’area industriale. Ma senza un ospedale efficiente perde peso. Dovrebbe essere il posto della buona aria e del buon vivere. Ma cos’è diventato oggi l’ospedale? Io sono andata in pensione, ma continuo a seguire i miei pazienti. Il funzionamento di un buon Pronto Soccorso è la differenza fra la vita e la morte. Se c’è un cardiologo, può stabilizzare un infartuato, diagnosticare un aneurisma. Oggi, se avvistano un’emergenza, chiamano un’ambulanza, e per Lamezia ci vogliono quaranta minuti. E possono essere fatali».

(Breve inciso: qual è la mente diabolica che ha fermato i lavori della superstrada del Medio Savuto, lasciando gli svincoli fatti e deserti? Chi ha concepito il ridimensionamento di un ospedale che funzionava, per giunta in una zona operosa e produttiva? Oggi nel Pronto Soccorso di Soveria mancano gli specialisti, il primario è a Lamezia. Il gabinetto di analisi chiude alle 14. Non c’è un anestesista, un pediatra, un ortopedico. Perfino una frattura scomposta diventa oggetto di un ping pong fra strutture, specialmente nei festivi).

Il racconto di Anna Marotta è un viaggio fra l’orgoglio e il rimpianto. «Viviamo in un’area ricca di anziani, la nostra è stata anche medicina sociale. Negli anni prima della pandemia organizzammo un convegno: “La medicina giusta e rispettosa in un ospedale di montagna”. L’attenzione ai pazienti nel senso più ampio e nobile, “cura e carezze” come diceva un mio professore a Padova.

Abbiamo fatto anche le commedie in corsia, con gli attori. Una volta trovai uno sgabuzzino pieno di pigiami nuovi e tute: li portavano i dipendenti, li tenevano da parte per i degenti che arrivavano qui all’improvviso, senza nemmeno uno spazzolino. Al convegno sono venuti anche loro, quelli che abbiamo curato, uno portava una cartellina con il mio nome. Sono tornati i medici che qui hanno lavorato. Un mondo che non c’è più. E nessuno ci pensa mai, ma intorno all’ospedale c’è anche l’indotto dei negozi, dei bar, delle pasticcerie. E alle mamme arrivavano fiori bellissimi».

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