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COSENZA – Un milione di bottiglie e una incoraggiante crescita anche di aziende consorziate: erano 10, oggi sono 60. Pochi ma significativi numeri per descrivere il boom della Denominazione di origine protetta “Terre di Cosenza”: le cifre sono state fornite da Demetrio Stancati, presidente dell’omonimo Consorzio di Tutela oltre che produttore e divulgatore, nel corso di una iniziativa organizzata dall’Accademia del Magliocco nella sala degli specchi della Provincia di Cosenza.

Fenomeno nel fenomeno, la predominanza del Magliocco, il vitigno cosentino per eccellenza che della denominazione è il principe assoluto. Eppure, hanno raccontato gli ospiti dell’accademia presieduta da Maurizio Rodighiero, nuovi terroir si (ri)affacciano a confermare la versatilità e soprattutto la ricchezza del Cosentino in fatto di biodiversità.

Dopo otto anni, infatti, il disciplinare della Dop sarà aggiornato con altri vitigni autoctoni già codificati e iscritti al Registro nazionale, con un occhio alla eco-sostenibilità giustamente rivendicato da Stancati: “Saremo tra i primi in Italia”.

“Il Magliocco è come certi calabresi: all’inizio è aspro ma poi si apre” scherza Rodighiero introducendo il dibattito moderato dal giornalista Massimo Clausi. Si affaccia anche l’assessore regionale all’Agricoltura, Gianluca Gallo, espressione di un territorio – si scoprirà – che dai tempi di Sibaris-Thurio ad oggi passando per un Cinquecento di fasti e lusso ha rappresentato uno dei punti più fertili della viticoltura calabrese.

Sì, perché il must dei comunicatori del settore – nel bicchiere oltre al vino deve esserci un racconto – è facile da onorare in quella che fu la Calabria Citeriore: non si tratta tanto e solo di evocare le note teorie su Enotria e Italia – la terra del vino denominata con un toponimo poi esteso all’intera penisola – quanto piuttosto di riconoscere a tutta l’attuale vasta provincia di Cosenza un ruolo nevralgico nella produzione vitivinicola, non riducibile al solo capoluogo. Al contrario, da Plinio il Vecchio a Mario Soldati, in duemila anni il “racconto” nel bicchiere non è mancato. E allora rivediamo i sibariti che, pure baciati da produzioni autoctone, per i loro simposi più esclusivi fanno arrivare il celebre vino dell’isola greca di Chios, come racconta il docente Unical e archeologo Antonio La Marca.

Alfonso Di Palma (Unibas) si concentra sulla frammentazione dei terreni seguita alla Legge Sila negli anni ’50 per sfatare il mito del “piccolo e bello”: “Cinque o 10mila metri quadrati di terra sono pochi, servono almeno 20 ettari. Il futuro è negli uliveti di 20mila ettari come quelli che già esistono in Tunisia o in Spagna. I grandi trattori a scavalco che lì si utilizzano per la raccolta delle olive possono essere usati anche per l’uva”.

All’agronomo Vincenzo Roseti tocca al contrario elencare il “piccolo” sinonimo di diversità e soprattutto di “competitività e qualità”: Arvino, Guarnaccia e Lacrima i nuovi terroir del Cosentino identificati in base agli areali (Savuto, Pollino e versante ionico). Mentre Antonello Savaglio della Deputazione di Storia patria si produce da par suo in una vera e propria lectio sul rapporto tra il vino e le famiglie nobiliari del Cinquecento: “Il vino cosentino allora era bevuto nelle corti europee oltre che italiane – dice –, dai Medici di Firenze agli Estensi di Ferrara ai Gonzaga di Mantova. Non solo: abbiamo notizia di una spedizione, datata febbraio 1560, a papa Pio IV di 1.800 botti da Cassano”.

Ma il vino cosentino non era solo prodotto da export. Il 10 novembre del 1535 Carlo V di ritorno da Tunisi arriva con corte al seguito in Calabria e alcune fonti lo collocano il 14 nel feudo di Bisignano, che allora vantava 50 terre in Calabria e 20 in Basilicata. “Lo sfarzo del ricevimento meravigliò non poco gli spagnoli, ammirati dalla bellezza degli alloggi, dall’abbondanza del vino e dalle bellissime cacce”, scrive la Treccani raccontando del banchetto officiato nel castello di San Mauro (se ne ammirano ancora i maestosi ruderi, a Corigliano) da Pietrantonio Sanseverino: un evento di gala ante litteram su cui si favoleggia anche lo sgorgare di fiumi di vino dalle fontane.

Appassionato del grappolo, Pietrantonio chiamerà dalla corte medicea Giovanni Andrea Gesualdi, un po’ come da anni si fa con gli enologi di importazione che hanno contribuito a far decollare la qualità del nettare calabrese. Parallelamente, il principe si dedicherà alle vigne sparse per la Calabria Citra, da Campotenese a Morano, da Corigliano a Cassano, dove si ha notizia di maestranze albanesi che nel 1533 impiantarono le vigne.

Non è da meno la costa tirrenica. Dieci anni prima di quel festone coriglianese (1525-26) il viaggiatore bolognese Leandro Alberti aveva infatti premiato quel territorio – forte dei tre importanti scali portuali ad Amantea, Paola e Scalea – come patria del miglior vino di Calabria. Proprio a Scalea sono collocati vitigni menzionati già nei registri di cancelleria di Federico II. Alberti menziona poi San Marco Argentano, Cosenza, Aiello, Petramala (Cleto) e sullo Jonio si spinge da Oriolo, Amendolara, Albidona, Trebisacce, Corigliano e Rossano fino a Calopezzati. Visita infine il marchese Spinelli a Cirò. Ma qui dobbiamo fermarci perché siamo finiti in un altro disciplinare…

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