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Una delle operazioni antindrangheta ad Aosta

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«Deve ritenersi provata l’esistenza, nel territorio della Valle d’Aosta, nel periodo in contestazione, di una associazione mafiosa denominata “locale” di Aosta». Lo scrivono i giudici della prima sezione penale della Corte d’Appello di Torino nelle 844 pagine con cui motivano la sentenza del processo Geenna svoltosi con rito abbreviato.

I magistrati, avallando la tesi del tribunale di Aosta, la definiscono una «articolazione territoriale con autonomia gestionale e decisoria della associazione di stampo mafioso denominata ‘ndrangheta, della quale riproduce i rituali, i ruoli, le dinamiche comportamentali ed modelli organizzativi, nella quale sono stabilmente inseriti soggetti appartenenti a diverse ‘ndrine ed in particolare a quella dei Nirta, proveniente da San Luca, nonché l’appartenenza a tale sodalizio mafioso» di Marco Fabrizio Di Donato (condannato a 9 anni di reclusione), Roberto Alex Di Donato (5 anni e 4 mesi), Francesco Mammoliti (5 anni e 4 mesi) e Bruno Nirta (12 anni 7 mesi e 20 giorni), nonché Antonio Raso (10 anni) e Nicola Prettico (8 anni), giudicati in separato giudizio.

Si tratta di una organizzazione che «presenta tutti gli elementi strutturali richiesti dal dettato dell’articolo 416 bis del codice penale alla luce di principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di articolazioni territoriali del sodalizio mafioso costituite fuori dal territorio di origine». In questo senso «l’intimidazione mafiosa può manifestarsi in molteplici forme, anche indirette e oblique, potendo raggiungere i propri effetti anche senza concretizzarsi in una minaccia o una violenza nelle forme stabilite dalle specifiche figure criminose previste dall’ordinamento penale».

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