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Il Comune di Verona

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POTREBBERO rivelare molto sugli affari della ‘ndrangheta in Veneto due nuove gole profonde. Due pentiti di spicco. Due nuovi collaboratori di giustizia che sono considerati dalla Dda di Venezia tra i capi della cellula veronese della cosca Arena di Isola Capo Rizzuto, quella che aveva messo le mani pure sugli appalti della municipalizzata del Comune scaligero, l’Amia, e gestiva un traffico di rifiuti.

I magistrati antimafia hanno già versato i primi interrogatori agli atti dell’udienza preliminare che si sta celebrando a carico di una quarantina di imputati dopo che un anno fa era scattata l’operazione “Isola scaligera”.

Si tratta di un calabrese e di un veneto. Uno, Domenico Mercurio, 51enne di Isola Capo Rizzuto, nell’ambito dell’associazione mafiosa veronese avrebbe avuto il compito di reimpiegare i capitali illeciti. Un pentito di vecchia data, Pino Giglio, quello che ha dilagato nel processo Aemilia perché era il bancomat della super cosca Grande Aracri di Cutro, sostiene che Mercurio emetteva fatture per operazioni inesistenti per società impegnate nei lavori di ristrutturazione dell’Arena di Verona.

FUORI DALLA CALABRIA

L’altro, il 56enne veronese Nicola Toffanin, detto “l’avvocato” perché aveva il compito di avvicinare i colletti bianchi, compresi i vertici dell’Amia, sostiene che, proprio per la sua non calabresità, gli era stato imposto il “ruolo di ibrido” che gli consentisse di rimanere in una sorta di “mondo di mezzo” senza svelare la propria contiguità alle cosche. Nel verbale riassuntivo viene utilizzato, non a caso il termine “invisibilità”, con riferimento a quelle figure cerniera tra l’ala militare dei clan e la cupola che in realtà costituisce la vera direzione strategica perché elebora le modalità di infiltrazione nell’economia, nella politica, nelle istituzioni.

Tra i primi argomenti sviscerati quelli della strana scuola di diplomi, il centro studi Fermi, che si occupava di formazione e certificazioni in materia di sicurezza sul lavoro ed è al centro di ipotesi di turbativa d’asta per gli strani appalti dell’Amia. A gestirla era Francesco Vallone, che i pentiti ritengono affiliato alla cosca Mancuso di Limbadi e definiscono, anche, come affiliato alla massoneria.

LA FIGLIA DEL BOSS

“Forniva poco prima dell’esame le risposte da dare alla commissione”. Tra coloro che a suo dire avrebbero conseguito il diploma ci sarebbe anche una figlia del boss Nicolino Grande Aracri, di recente divenuto collaboratore di giustizia, vari ‘ndranghetisti e uomini delle forze dell’ordine.

“L’esame di fatto era una farsa”, spiega Mercurio, perché Vallone forniva le risposte da dare alla commissione. Ma c’è una cosa, che Mercurio spiega meravigliosamente, che la dice lunga sullo strapotere mafioso in Veneto e l’infiltrazione nel tessuto economico di una delle zone più produttive del Paese. “Tutte le aziende che si rivolgono ai calabresi lo fanno per ottenere vantaggi. Se si vuole lavorare onestamente non ci si rivolge a noi e soprattutto a me. Ai calabresi ci si rivolge quando si vogliono rubare soldi allo Stato e si chiede omertà e protezione”.

Del resto la ‘ndrangheta si era spartito il Veneto secondo rigidi criteri di competenza territoriale. “Gli accordi erano che ogni famiglia gestiva il territorio dove abitava. Io, abitando a Lavagno, avevo competenza su San martino Buon Albergo e Lavagno. I Grisi avevano il territorio di Monteforte, gli Aiello Lonigo in accordo con i Multari e così via”. Tutto sotto il controllo della “casa madre”. E’ una questione di “fratellanza”, come la chiama Mercurio. “Arriva sempre un esponente delle famiglie di giù a controllare le attività intraprese al Nord. La fratellanza rispetta gli ordini e gli equilibri che sono stati stabiliti giù tra le cosche”.

I fatti contestati alla famiglia di ‘ndrangheta capeggiata da Antonio Giardino, collegata alla cosca Arena di Isola Capo Rizzuto, sarebbero stati commessi soprattutto nel Veronese. Le indagini sono state fatte là dove c’è la polpa da succhiare. Anzi, da “mangiare”, come si apprende dalla viva voce degli indagati.

LA FAMIGLIA GIARDINO

Citiamo questo dato soltanto per dare un’idea del fenomeno della ‘ndrangheta autonoma, che pur mantenendo legami con la casa madre si muove in maniera diversa da quella tradizionale stabilendo una rete di contatti nei territori “colonizzati”. E che contatti. Le mani della famiglia Giardino a quanto pare si erano allungate sul Comune di Verona. O, meglio, sugli appalti dell’Azienda speciale, tant’è che tra gli indagati figurava anche l’ex sindaco Flavio Tosi. I vertici dell’Amia, in particolare, secondo la ricostruzione dei magistrati antimafia, sarebbero stati corrotti dai malavitosi per poter entrare nel settore dei corsi di formazione per la sicurezza sul lavoro.

Chissà se i pentiti, oltre a fornire agli inquirenti i necessari riscontri, apriranno nuovi squarci di luce. C’è da spettarselo, perché i primi verbali sono densi di omissis, segno evidente che gli approfondimenti investigativi sono ancora in corso. Caratteristica di questa “filiale” della “casa madre” Arena viene ritenuta dagli inquirenti il fatto di operare sotto traccia, senza gesti eclatanti che possano attirare l’attenzione delle forze dell’ordine, innervandosi così sul tessuto imprenditoriale per contaminarlo.

IL RICOVERO DEL BOSS

Tant’è che l’indagine non prende l’avvio da fatti di sangue ma dal ricovero in ospedale del capo indiscusso del presunto clan, Antonio Giardino, che, durante la degenza in un ospedale dell’hinterland veronese, viene sottoposto a intercettazioni. A quanto pare, parlava liberamente degli affari criminali di cui era al vertice. Ma è una storia lunga. I rapporti dei Giardino con Tosi risalgono all’epoca in cui fu monitorato un presunto sostegno elettorale e una serie di intercettazioni portavano a appalti del Comune veneto che il clan tentava di ottenere dal politico amico, la cui elezione fu festeggiata nel 2012 dagli isolitani a Verona.

Inoltre, Tosi fu pedinato da tre pattuglie di carabinieri in borghese quando venne a Crotone per presentare la fondazione “Ricostruiamo il Paese insieme”, il 29 gennaio 2012, probabilmente nell’ambito degli accertamenti sulle infiltrazioni in Veneto delle cosche crotonesi. La zona grigia trema anche in Veneto. Trema in mezza Italia perché a “cantare” c’è anche il super boss di Cutro, anche se la Dda di Catanzaro sta ancora valutando i suoi primissimi racconti, alla ricerca di riscontri.

Ulteriori particolari sull’edizione cartacea calabrese del Quotidiano del Sud.

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