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Paolo Bellini

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È stato un killer al servizio di un clan trapiantatosi da Cutro a Reggio Emilia, Paolo Bellini, l’ex primula nera ed ex sicario della ‘ndrangheta condannato all’ergastolo per concorso nella strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Uno che uccideva per contratto, uno che era capace di svanire nel nulla in Brasile come di uccidere per una mancata precedenza. Uno che, per soldi, poteva ammazzare per conto della ‘ndrangheta oppure compiere la strage di Bologna.

Questa, del resto, è la tesi del sostituto procuratore di Bologna Nicola Proto che, dinanzi alla Corte d’Assise del capoluogo emiliano, ha interrogato per tre giorni l’ex esponente di Avanguardia Nazionale e ne ha poi ottenuto la massima pena.

È un personaggio misterioso, Bellini. Innanzitutto era uno dal grilletto facile, che avrebbe sperimentato anche in Calabria. Per esempio, a suo dire, insieme al pentito cutrese Antonio Valerio, quello che ha dilagato nel processo Aemilia, insieme a un terzo personaggio rimasto da identificare – anche se le accuse sono state archiviate – avrebbe ucciso a Crotone un uomo, nel settembre ’90, soltanto perché non s’era fermato con l’auto e non aveva pertanto riconosciuto l’appartenenza mafiosa dei killer.

Un personaggio inquietante, dai trascorsi nella destra eversiva, essendosi accusato, dopo l’arresto del 6 giugno 1999, dell’uccisione del giovane di estrema sinistra Alceste Campanile e di diversi altri fatti di sangue, molti dei quali commessi a Reggio Emilia. I giudici emiliani lo descrivono come «un eroe negativo, dedito al crimine senza riserve, con analoga determinazione dimostra di abbracciare il nuovo ruolo di “pentito” intendendo collaborare incondizionatamente e fuori da ogni reticenza. E se il racconto si connota con palesi tratti egocentrici, e la confessione sembra spinta fino al limite del compiacimento, non per questo la ricostruzione che il Bellini offre del proprio passato criminale può essere svalutata come espressione di una attitudine mitomane».

La sua carriera criminale inizia nel settembre del ’76, quando si diede alla latitanza in Brasile, in seguito ad una condanna per il tentato omicidio dell’amante della sorella, per cui venne condannato alla pena di nove anni di reclusione, poi ridotta a cinque nel secondo grado del giudizio. La latitanza si protrasse per oltre cinque anni, prima all’estero e poi in Italia: in Brasile, Bellini riuscì a farsi rilasciare documenti di identità a nome di Roberto Da Silva, con i quali rientrò in Italia.

Nell’81 venne arrestato, con l’identità Da Silva, a Pontassieve, assieme al fiorentino Giuseppe Fabbri, con un carico di mobili rubati. Con il falso nome venne detenuto nel carcere di Sciacca dove conobbe il mafioso Antonino Gioè, “uomo d’onore” che faceva parte della commissione di Cosa Nostra, stringendo rapporti con la mafia siciliana, tanto che avrebbe testimoniato al processo di Firenze per la strage di via dei Georgofili.

Terminato il periodo di carcerazione, Bellini, sotto falso nome, si mosse liberamente in Italia e all’estero, ottenendo regolari documenti di soggiorno e il brevetto di pilota d’aerei. La Corte d’Assise della Città del Tricolore nell’84 lo condannò a otto anni di reclusione, ridotti a cinque in appello, per i tentati omicidi Comastri e Cataliotti e per altri reati connessi alla sua falsa identità.

L’8 gennaio 1988, nella sua abitazione di Scandicci venne trovato ucciso l’antiquario fiorentino suo complice nei furti di mobili antichi in Toscana; sospettato quale autore dell’omicidio, Bellini venne nuovamente arrestato e portato nel carcere di Prato dove conobbe Nicola Vasapollo, uomo della ‘ndrangheta di Cutro, con il quale strinse un legame profondo basato su una reciproca promessa di scambio di favori che consisteva nell’eliminare l’uno il nemico dell’altro.

Per l’omicidio dell’antiquario, venne assolto in secondo grado. Intanto strinse il legame con la ‘ndrangheta di Cutro ai tempi della faida tra i Dragone e il gruppo rivale, che lo reclutò come killer. Tant’è che venne sottoposto a fermo insieme ai cutresi Vincenzo Vasapollo e Giulio Bonaccio per i fatti di sangue avvenuti tra il 1998 ed il 1999 a Reggio Emilia: gli omicidi di Gesualdo Giuseppe Abramo e Oscar Truzzi, il tentato omicidio di Antonio Valerio, l’attentato al bar Il Pendolino. La Corte di Assise di Reggio Emilia, nel 2002, lo condannò a 23 anni di reclusione. Ma gli omicidi erano anche in Calabria.

Nell’agosto 2008 la Corte d’assise di Catanzaro lo condannò a 12 anni per l’omicidio del cutrese Paolo Lagrotteria, uno dei delitti da lui confessati, per il quale scagionò, invece, il boss Nicolino Grande Aracri. Dopo l’uccisione di Vasapollo, Bellini manifestò alla Questura di Reggio Emilia preoccupazioni per la propria incolumità, che riteneva minacciata da esponenti della cosca cutrese dei Dragone. Del resto, aveva subito due agguati ad opera dei “dragoniani”.

E iniziò a fare rivelazioni su rivelazioni su quel periodo; a suo dire, percepiva uno stipendio mensile per fare il killer. Un milione e mezzo di ex lire. Erano anni di piombo.

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