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Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni

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Per l’Italia è decisivo il  rapporto con la Commissione che non si rivolve con una interlocuzione politico-parlamentare, ma con una interlocuzione sistemica con essa e con la sua tecnocrazia.  Il breve e medio termine deciderà se la prima donna premier italiana farà o meno la storia di questo Paese. Si gioca tutto nel rapporto con Commissione e tecnocrazia e nel peso che riuscirà ad esprimere personalmente e con i suoi alleati storici (non altri) dentro il Consiglio europeo. È cruciale  il confronto sui temi caldi del Pnrr su un terreno di assoluto pragmatismo. Che si regge su un impegno riformatore del governo italiano e sull’esigenza di agire in modo organico tra tutte le leve possibili di fondi europei e gli impieghi effettivi che possono fare la differenza.  Il fondo sovrano europeo e la proposta Prodi di unire negli studi le trenta migliori università delle due sponde del Mediterraneo rispondono all’interesse strategico nazionale di ruolo guida in Africa e di costruzione di una nuova Europa.

Il nuovo equilibrio politico del Parlamento europeo lo vedremo tra un anno e mezzo e, all’esito delle elezioni, potremo constatare se la crisi dei socialisti partita prima del Qatargate continuerà ancora e se il Partito popolare europeo ne trarrà beneficio. Giorgia Meloni vuole giocare la sua partita e sta muovendo le pedine giuste per porre le basi di un’alleanza nuova tra i conservatori di cui è presidente e il Partito popolare europeo rompendo lo schema della tradizionale alleanza di quest’ultimi con i socialisti che ha segnato politicamente la stagione delle grandi crisi. La presidente del Consiglio italiana ragiona in chiave politica e fa bene a interessarsi di questa partita indipendentemente se si è d’accordo o meno con lei sul piano delle appartenenze.

Il punto di fondo, però, è che per un grande Paese come l’Italia ad essere decisivo è il rapporto con la Commissione che non si risolve con una interlocuzione politico-parlamentare ma con una interlocuzione sistemica con il governo della Commissione e la sua potente tecnocrazia. In questo senso il colloquio di ieri a Palazzo Chigi tra la presidente della Commissione europea, von der Leyen, e la presidente del Consiglio italiana, Meloni, ha una valenza indubbiamente positiva – anche sul piano personale – che rientra nel solco tracciato da Fitto di portare il confronto cruciale per il nostro Paese sui temi caldi del Piano nazionale di ripresa e di resilienza e dei migranti su un terreno di assoluto pragmatismo. Che si regge su un impegno riformatore ribadito del governo italiano, ma anche sull’esigenza di agire in modo organico tra tutte le leve possibili di fondi europei e gli impieghi effettivi che possono fare la differenza.

Questa nuova competenza politica e tecnica italiane può fare la differenza, ma deve superare una serie di stress test interni e europei che richiedono il massimo di attenzione e un utilizzo calibrato di tutte le migliori energie disponibili. La riunificazione di tutti i fondi europei – Pnrr, coesione e sviluppo, fondi strutturali, Piano complementare – dentro una unica logica operativa con sveltimento delle procedure e accelerazione dei poteri sostituivi centrali è la mossa compiuta dal governo Meloni ed è anche l’unica che può consentire di colmare il guado che separa annunci da cantieri effettivamente aperti, costi realistici e costi irrealistici alla luce dei rincari delle materie prime. Il fondo sovrano europeo per la politica industriale è un altro degli strumenti decisivi nel nuovo quadro geopolitico mondiale che ha bisogno per diventare realtà di un salto di qualità nelle relazioni reciproche tra i Grandi dell’Europa e in un consolidamento dell’assetto storico di comando. Bisogna avere piena consapevolezza in ogni mossa che facciamo del quadro reale in cui si opera.

Bisogna avere piena consapevolezza che siamo davanti a un’Europa a due velocità tra Parlamento e tecnocrazia con in mezzo il Consiglio europeo che è formato da tutti i capi di governo e di Stato che sono quelli che politicamente decidono. Si può scommettere e costruire un nuovo equilibrio in Parlamento tra i partiti europei, ma se non si hanno le alleanze giuste e non si è autorevoli e rispettati nella sede del potere politico vero, che è il Consiglio europeo, e non si riesce a stabilire un tasso di fiducia bivalente altrettanto forte nell’interlocuzione con la tecnocrazia, non si fanno grandi passi avanti concreti. Questo è il punto vero che Giorgia Meloni deve mettere a fuoco. Sembrerebbe averlo capito, e l’incontro di ieri è un punto a suo favore, ma c’è qualcuno intorno a lei che dà sempre la sensazione che lo si sia capito fino a un certo punto.

Si deve fidare Giorgia Meloni di chi ha più esperienza di lei per fare più strada ancora proprio lei mettendo a frutto le sue doti di intelligenza politica. Non si lasci sedurre da collaboratori molto influenti e anche di provata capacità nel disegnare scenari politici europei e italiani, ma si convinca piuttosto fino in fondo che la sua priorità è tenere questo legame forte dentro il Consiglio europeo con gli unici alleati strategici possibili per l’Italia, che sono Francia e Germania, e fare in modo che se ne senta il peso nel luogo vero del potere europeo. Se dovessimo frazionare questo potere europeo per renderlo chiaro al grande pubblico, dovremmo dire che per un quarto delle sue decisioni si esercita nel Parlamento, che per due quarti si esprime all’interno del Consiglio e che l’ultimo quarto di potere risiede nella tecnocrazia di Bruxelles che, però, è a sua volta quella che maggiormente influenza il Consiglio europeo. Quindi, vale doppio. Alla fine, tanto per capirci, il Consiglio europeo decide sulla base dei dati che i tecnocrati passano loro sui singoli dossier, non sulla base delle discussioni e dei singoli casi emersi in sede di dibattito all’interno del Parlamento europeo. Perché qui siamo alla politica non al governo dell’Europa, siamo al significato morale e alla testimonianza che appartengono alla storia di dopodomani costruita da figure come quelle di David Sassoli ieri giustamente ricordata a Roma in modo bello e pulito da Romano Prodi, Enrico Letta, Paolo Rumiz e la stessa von der Leyen. Aiutati tutti dall’intelligente lavoro di Claudio Sardo che ha restituito la traccia e la forza dei suoi discorsi.

Siamo in questo ambito dentro il laboratorio della grande politica che agisce in una prospettiva di lungo termine. Il breve e medio termine che è quello che deciderà se la prima donna premier italiana farà o meno la storia di questo Paese si gioca nel rapporto con Commissione e tecnocrazia, da un lato, e nel peso che riuscirà ad esprimere personalmente e con i suoi alleati dentro il Consiglio europeo dei capi di governo e di Stato. Quando il Parlamento europeo lancia certe tematiche si rivolge a ventisette opinioni pubbliche nazionali e i capi di Stato e di governo dei singoli Paesi si rifanno alle loro opinioni pubbliche e alle loro élite nazionali, non a quello di cui hanno discusso i loro parlamentari europei con gli altri parlamentari europei. Per fare passi avanti su Pnrr, migranti, politica industriale europea, bisogna fare sponda il più possibile con le tecnocrazie europee che sono anche quelle più interessate al successo del Pnrr italiano perché questo vuol dire che si tornerà a fare debito comune e investimenti comuni. L’accortezza deve essere quella di non fare trucchetti e di rispettare gli impegni sulle riforme come ha fatto fino a oggi Fitto e di essere ricambiati con altrettanta leale collaborazione nella sistemazione di tutti i cambiamenti necessari per rendere effettiva la spesa.

Se si vince questa partita tutto viene a catena. Anche la grande sfida della leadership italiana sul Mediterraneo che guida la nuova Europa diventa reale. È intelligente, in questo senso, la proposta di Romano Prodi di cui ha parlato nel suo colloquio con la stessa von der Leyen di unire negli studi le trenta migliori università delle due sponde del Mediterraneo perché cinquecentomila ragazzi che oggi studiano insieme domani cambieranno il Mediterraneo e l’Africa. Questa è una sfida che il governo Meloni deve fare sua perché risponde all’interesse generale del Paese muovendosi con abilità nei rapporti con le tecnocrazie europee e dentro il Consiglio europeo. Non dimenticando mai, neppure per un istante, che nessuno degli altri capi di Stato e di governo che sta con lei in quel Consiglio europeo è così contento che con i soldi europei di tutti l’Italia preservi il suo miracolo economico e costruisca il suo futuro da locomotiva. Purtroppo, è ancora così è bisogna muoversi con il massimo di prudenza e di efficacia.


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