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LE DIMISSIONI senza ritorno di Mario Draghi gettano l’economia italiana nella ‘terra incognita’ – hic sunt leones – di una possibile riedizione della crisi da debiti sovrani. È facile vedere il peggio: i rendimenti dei BTp si sono allineati – non accadeva da molto tempo – a quelli della Grecia, e lo spread con i Bund è balzato verso i 250 punti. La Borsa, per il secondo giorno consecutivo, è calata, più delle altre che già – noi e loro – hanno e abbiamo i noti problemi legati al gas russo. E, nello stesso giorno, la Bce ha alzato i tassi-guida di mezzo punto e ha dichiarato che siamo solo all’inizio di una stagione di rialzi, o, come viene pudicamente detto, di ‘normalizzazione’ della politica monetaria. Dobbiamo quindi prepararci.

Ma, per non fasciarci il capo prima di essercelo rotto, vediamo quei fattori che possono ammortizzare la caduta. La prima cosa da chiedersi è il quid agendum del governo da qui a quando quello nuovo sarà nella pienezza dei suoi poteri: ci sono da tre a cinque mesi prima di avere un nuovo esecutivo (molto dipende ovviamente dall’esito delle elezioni). Fino allora Draghi continuerà a essere il capo del governo, se pure limitato all’ordinaria amministrazione. Ma questa limitazione è meno grave di quanto sembri. Per prima cosa, non c’è una definizione standard di ordinaria amministrazione: in pratica è domandata allo stesso Consiglio dei ministri, e, a parte ovvie esclusioni (l’Italia non potrebbe dichiarare guerra…!), molte delle cose che Draghi era impegnato a fare possono continuare senza soluzioni di continuità. L’attuazione del Pnrr discende da un accordo internazionale con l’Unione europea, e questa attuazione fa parte dell’ordinaria amministrazione, così come i decreti delegati di riforme già approvate.

Non bisogna poi dimenticare che molto della implementazione del Pnrr è basata sulla ‘buona amministrazione’, cioè sulla semplificazione dei meccanismi burocratici, per i quali sono necessarie solo azioni, appunto, amministrative. Quelli che in America si chiamano gli ‘Executive order’ di cui dispone il presidente non sono applicabili in Italia, ma la semplificazione delle procedure e la riorganizzazione degli uffici, così come la possibilità di ricorrere al commissariamento di centri decisionali incapaci sono già possibili e previste dalle norme attuali.

Non c’è quindi il rischio che tutto si fermi in attesa delle elezioni e del nuovo governo. Il rischio, naturalmente, c’è per quanto riguarda l’attivismo del prossimo esecutivo nel perseguire la realizzazione delle spese previste dal Pnrr, ma sembra difficile che, chiunque arrivi, voglia rinunciare alla ‘manna dal cielo’ che è arrivata dalla Ue, e di cui l’Italia è il principale beneficiario. Ma quali sono i rischi di un attacco dei mercati ai titoli pubblici italiani, non più difesi dalla reputazione di Draghi e Franco, e dai risultati positivi – fin qui – in termini di crescita e controllo delle finanze pubbliche? Cosa succederà se uno dei primi atti di un nuovo governo sarà quello di mettere in conto quello scostamento di bilancio cui Draghi e Franco si erano sempre fieramente opposti? In pratica, spendere e spandere?

Qui entra in scena il nuovo strumento messo in campo dalla Bce e annunciato dalla Lagarde contestualmente al rialzo dei tassi-guida. Questo ‘Trasmission Protection Instrument’ (TPI), o ‘Strumento di protezione della trasmissione (monetaria) mira ad assicurare che la politica monetaria della Bce si irradi egualmente su tutti i Paesi dell’Eurozona, ciò che sarebbe negato se gli spread aumentassero senza fondamento. Questo strumento, così come iniziative analoghe adottate in passato, porta ad acquistare titoli pubblici dei Paesi attaccati dal mercato, così da evitare indebiti aumenti dei tassi. In positivo, il TPI ha alcuni aspetti degni di nota: lo spettro delle scadenze dei titoli – da 1 a 10 anni – è ampio, e il sostegno è illimitato – non ci sono confini agli acquisti.

Ci sono però tre condizionalità: la prima è alquanto vaga. Il TPI sarà attivato quando gli spread eccederanno quanto giustificato dalle deboli fattezze strutturali delle economie. Chi decide, quando, come, perché? Questa vaghezza sembra quasi un invito ai mercati ad affondare la spada per testare le risposte della Bce. La seconda condizionalità non è, per l’Italia, particolarmente preoccupante: i beneficiari del TPI devono superare le analisi di sostenibilità del debito pubblico e devono attuare politiche economiche conformi agli impegni presi con la Commissione. La terza condizione è analoga a quella a suo tempo collegata alle ‘Outright Monetary Transactions’ (OMT) che Draghi fece approvare dal Consiglio Bce dopo il famoso ‘whatever it takes’ del 2012: la creazione di liquidità connessa agli esborsi TPI deve essere compensata a livello della liquidità complessiva. Non c’è che da sperare che, così come successe con le OMT, anche il TPI possa non essere mai usato, e che basti la ‘faccia feroce’ (per la verità non troppo) della Bce per dissuadere i mercati dall’affondare la spada. Ma non possiamo essere sicuri. Allacciarsi le cinture.


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