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Il presidente del Consiglio Mario Draghi lo ripete da giorni: bisogna fare presto a sbloccare il grano fermo nei porti ucraini per evitare una catastrofe alimentare mondiale. E anche ieri il prezioso cereale è stato uno dei temi di confronto con il presidente turco Erdogan della nutrita delegazione di ministri italiani guidata dal premier.

La Turchia sta tentando di svolgere un ruolo di mediazione tra Russia e Ucraina anche sul fronte dei prodotti alimentari, ma finora non è stato centrato alcun obiettivo. Mentre proprio ieri ha sequestrato una nave russa carica di grano ucraino.

Sempre ieri, con perfetta tempestività, in concomitanza con l’incontro tra Draghi ed Erdogan, Mosca ha fatto sapere di aver adottato una serie di misure per consentire la navigazione sicura nel Mar Nero e nel Mar d’Azov. Il porto di Mariupol , secondo le fonti russe, sarebbe stato completamente sminato. Sono stati creati così due corridoi umanitari per consentire l’export di grano.

È solo un primo segnale, anche perché solo due giorni fa sono stati bombardati altri campi coltivati a cereali, ma lo sblocco delle derrate alimentari, con l’Ucraina che da sola rappresenta il 10% degli scambi mondiali di grano, secondo Coldiretti, può contribuire a frenare la corsa dei prezzi dei cereali e soprattutto può riavviare gli approvvigionamenti destinati ai Paesi più poveri sull’orlo di una crisi senza precedenti.

Lo sblocco dei porti libererebbe – ha sottolineato Coldiretti – anche lo spazio nei centri di stoccaggio per accogliere i nuovi raccolti di grano in arrivo tra poche settimane, stimati in calo di circa il 40% rispetto alle attese. E si potrebbe così mettere fine alle speculazioni che dai mercati finanziari si sono spostate sulle commodity agricole. Le quotazioni delle materie prime alimentari nell’ultimo anno sono schizzate in alto del 34%, secondo l’ultimo indice della Fao. E gli effetti sono devastanti. Anche sul fronte dei flussi migratori, perché a spingere verso la sponda italiana del Mediterraneo sono le guerre, ma anche la fame.

Secondo un lavoro realizzato dal Centro Studi Divulga nei primi tre mesi di guerra il numero di individui che ha varcato la soglia della povertà è aumentato di un terzo. Si tratta di 450 milioni di persone che sono andate a rafforzare quell’esercito di un miliardo che già prima del conflitto non aveva cibo. Il blocco dei porti del Mar Nero e le misure protezionistiche si sono aggiunte a una corsa al rialzo dei prezzi già sostenuti per la ripresa economica seguita ai due anni di pandemia.

Oggi sotto attacco ci sono i Paesi che dipendono dall’import di cibo, in particolare quelli della sponda sud del Mediterraneo, legati a filo doppio a Russia e Ucraina. Alla guerra combattuta se ne aggiunge un’altra. Secondo l’Onu la prosecuzione del conflitto si tradurrebbe infatti in una “dichiarazione di guerra alla food security”. Dall’inizio delle ostilità i listini dei creali sono cresciuti del 25%. Mentre per sementi, fitofarmaci, carburanti l’impennata arriva al 45%. E se i prezzi corrono il potere di acquisto si polverizza.

I paesi della sponda sud del Mediterraneo, che vengono identificati con l’acronimo di Mena (Middle-Est and North Africa) rappresentano per l’Europa – spiega il report di Divulga – una fondamentale cintura di contenimento dei fenomeni migratori provenienti da alcune delle aree più povere del mondo, in particolare dell’Africa sub-sahariana. Se questa cintura cede si intensificano le ondate. Russia e Ucraina rappresentano poco più del 30% delle esportazioni di cereali, oltre il 16% di quelle di mais e più del 75% di quelle di olio di semi di girasole.

Tra i più dipendenti l’Egitto che importa il 70% dei cereali dai porti del Mar Nero, il Libano circa il 75% e lo Yemen poco meno del 50%. La situazione non è molto diversa in Libia, Tunisia, Giordania e Marocco. In molte di queste aree l’esposizione alle fluttuazioni di mercato si combina con l’incremento del costo statale dei sussidi per l’acquisto del cibo. L’Egitto per esempio, secondo i dati di Divulga, spende circa 3miliardi di dollari l’anno per acquistare grano e altri 5miliardi per sussidiare l’acquisto di pane. Ma l’inflazione galoppante impoverisce le risorse pubbliche, un aumento del 25% dei prezzi dei cereali si traduce in un aggravio per le casse egiziane di oltre un miliardo di dollari. I rischi di carestia ci sono.

A piegare la produzione si aggiunge la mancanza di fertilizzanti. Potassio e fosforo che insieme con l’azoto sono basilari per i fertilizzanti sono concentrati in Russia e Bielorussia con l’export tra il 2009 e il 2019 che ha segnato un balzo del 145% per la prima e del 252% per la seconda. E ancora dai due Paesi arriva il 12% dell’urea, uno dei principali fertilizzanti utilizzati nel mondo. Con i costi alle stelle molti agricoltori, soprattutto dei Paesi più poveri, escono dalle linee produttive aggravando così la situazione di carenza di cibo.

La Fao ha lanciato ieri un progetto da 17 milioni di dollari per aiutare gli agricoltori ucraini a salvare il raccolto di luglio. D’altra parte 36 paesi su 55 con crisi alimentari dipendono dall’export di grano da Kiev e Mosca. Non aiuta poi la siccità che sta minacciando i raccolti di grano negli Stati Uniti. Ma è allarme anche in Francia e Cina. Un disordine mondiale dunque che, secondo le previsioni di Divulga, rischia di gettare nel caos soprattutto l’area Mediterranea.


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