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Recep Tayyip Erdogan

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LA SPERANZA di un cambiamento per la Turchia non c’è più. Al suo posto ci sono altri cinque anni di Recep Tayyip Erdogan presidente, sostenuto da una solida maggioranza parlamentare, quella di sempre. Per convincere il Paese a voltare pagina non sono bastate la gestione ampiamente deficitaria dei soccorsi per il terremoto, una politica monetaria assurda che sta combattendo l’alta inflazione (50%) attraverso la riduzione seriale dei tassi d’interesse, il crollo del potere d’acquisto dei turchi e la svalutazione della lira.

I RIFLESSI INTERNAZIONALI

Erdogan è un combattente, controlla la maggior parte dei media in maniera pervasiva e ha saputo trovare un ruolo importante, anche se controverso, per la Turchia negli equilibri geopolitici non solo del Mediterraneo, ma del mondo intero. Questi elementi, evidentemente, assieme ad alcuni regali pre-elettorali piuttosto generosi, sono bastati perché strappasse al secondo turno una maggioranza chiara nonostante sulla regolarità del voto siano stati espressi alcuni dubbi. Non ci sarà quindi, a meno di sorprese che con Erdogan sono sempre dietro l’angolo, un percorso chiaro di riavvicinamento all’Europa, né una minore ambiguità nei confronti del rapporto con la Russia di Putin (una delle prime, se non la prima, a congratularsi per la vittoria) e anche nei confronti del rapporto con la Nato, della quale è membro importantissimo ma riottoso, come conferma l’acquisto del sistema di difesa missilistica S-400 da Mosca. Non ci sarà probabilmente una politica meno assertiva nel Mediterraneo sul controllo dei giacimenti di gas e le dispute territoriali in proposito con la Grecia. Non ci sarà un’attenuazione della repressione nei confronti dei curdi e, anzi, ci sono tutte le premesse per un’intensificazione delle azioni militari in Siria e Iraq.

Resterà, quello sì, il ruolo di mediazione tra Ucraina e Russia. Nessuno dimentica che è stato anche grazie a lui se è ripreso il traffico delle navi che trasportano il grano nel Mar Nero. Così come nessuno dimentica che l’Unione europea ha stretto con lui un patto da 6 miliardi di euro perché tenesse sul suo territorio i profughi siriani in fuga dalla guerra e altrimenti diretti in Europa.

A congratularsi con lui per la vittoria, non sono stati solo i prevedibili Putin e Orban, ma anche, tra gli altri, il presidente francese Emmanuel Macron e quello americano Joe Biden. Il rapporto di interdipendenza tra Occidente e Turchia, rinsaldato dalle rotte energetiche diventate ancora più importanti dopo il distacco dalla Russia, è evidentemente imprescindibile, al netto di tutte le contraddizioni che in realtà sono materia prima vitale delle relazioni internazionali e della realpolitik. Il suo avversario, il moderato Kemal Kilicdaroglu, ha ottenuto il 48% delle preferenze, segno che c’è una parte non trascurabile del Paese che avversa le politiche di Erdogan.

IL CROLLO ECONOMICO

La priorità di Erdogan, soprattutto negli ultimi anni, è stata la crescita a ogni costo, sostenuta spesso con opere infrastrutturali faraoniche. Il Pil quest’anno potrebbe crescere del 5%, ma il valore della lira rispetto al dollaro è oggi un decimo rispetto a dieci anni fasi e l’inflazione è fuori controllo: al 50% secondo le statistiche governative, almeno il doppio secondo economisti del settore privato. L’erosione del potere d’acquisto è stata drammatica per milioni di turchi e si pensava che avrebbe alimentato grande risentimento tra la popolazione. Erdogan, evidentemente, è riuscito ad attenuare un’impopolarità crescente raddoppiando il salario minimo, togliendo alcuni requisiti per l’età pensionabile, consentendo così ad almeno due milioni di turchi di andare in pensione, e regalando Giga per traffico dati ai giovani alla vigilia del ballottaggio.

La campagna elettorale con grandi mezzi a disposizione, il controllo dei media, la sua capacità oratoria e il carisma hanno fatto il resto. Assieme, ovviamente, a un forte senso di identità nazionale che Erdogan ha sempre saputo interpretare e piegare alle sue strategie politiche. Sul piatto della bilancia questo forte senso identitario ha pesato più della svolta autoritaria e autocratica. Le reazione dei mercati è stata identica a quella dopo l’esito del primo turno, quando aveva chiuso in testa contro ogni pronostico. Perde la Borsa, la lira tocca nuovi minimi a 20,10 per un dollaro e, secondo JPMorgan, scivolerà di un altro 30% entro la fine dell’anno. I titoli bancari hanno perso un quarto del valore nelle ultime settimane, mentre venerdì scorso, ultimo giorno di mercati aperti prima del voto, i titoli delle società turche scambiate alla Borsa di New York hanno registrato vendite nette per 31 milioni di dollari, il più ampio deflusso giornaliero di capitale azionario dal 2018.

Gli investitori internazionali si interrogano su quali potranno essere le prossime mosse. Se continuerà con la politica economico-monetaria non convenzionale che l’ha portato nell’ultimo anno a ridurre i tassi di 500 punti base oppure se invertirà la rotta. Tra le altre cose ha promesso un team «con credibilità internazionale», ma per la formazione del nuovo governo bisognerà attendere qualche giorno, e la lista dei nuovi ministri non è attesa prima di venerdì. Intanto, tra i due turni sono lievitati in maniera spropositata i costi per assicurarsi nei confronti di un eventuale insolvenza turca attraverso i credit default swap: tra i due turni sono saliti di 665 punti base.

GLI SCENARI INTERNI

Le scuole di pensiero su come Erdogan gestirà l’economia si dividono: da un lato chi sostiene che con la vittoria non avrà più nulla da perdere e che per questa ragione comincerà ad aumentare, sia pure molto gradualmente, i tassi d’interesse. Dall’altro molti ritengono che proseguirà sulla stessa strada intrapresa negli ultimi due anni proprio perché queste politiche economiche convenzionali non gli sono costate la presidenza. Anche in questo caso c’è un divario tra la percezione degli investitori internazionali e quella dell’opinione pubblica interna, che Erdogan è riuscito in buona parte a controllare e a convincere. Soprattutto nelle zone rurali, dove è stato il grande vincitore, mentre le grandi città hanno votato per il candidato dell’opposizione.


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