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Matteo Salvini, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio

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Le convulsioni dei partiti nel corso delle trattative per eleggere il presidente della Repubblica hanno lasciato profondi strascichi. Sotto stress sono soprattutto Salvini e Conte, i due leader sconfitti nella partita del Colle. La loro crisi si riverbera sulla Lega e sul M5s, i partiti che contano sui gruppi parlamentari più estesi, ma vivono giorni di fibrillazione. Tutto il sistema politico italiano, di conseguenza, è attraversato da un’onda tellurica. Il cui esito è difficile da prevedere.

Da una parte, c’è la Lega. Un partito all’antica, solido, organizzato, coeso. Forse il partito italiano più simile ai partiti del 900. Un partito con una base elettorale molto forte che affonda nel tessuto industriale e imprenditoriale del nord. E può contare su una rete fitta di amministratori locali, dai sindaci dei piccoli comuni fino ai governatori di regioni grandi e importanti come la Lombardia.

Il paradosso? L’elemento più fragile di questa struttura formidabile sta in cima al suo vertice: si chiama Matteo Salvini. Dopo lo sbandamento dei giorni scorsi, il leader della Lega ha lanciato una proposta: una federazione dei partiti di centrodestra ispirata al Grand Old Party, il Partito Repubblicano americano.

L’idea non è nuova, ma lanciata così, dalla sera alla mattina, senza alcuna preparazione, ricorda tanto il lancio a casaccio dei nomi per il Colle. Ancora una volta, c’è aria di improvvisazione nelle mosse del Capitano. Ufficialmente la Lega fa quadrato intorno al suo leader azzoppato. Ma la sensazione è che sarà difficile per lui uscire dall’angolo in cui si è cacciato da solo.

Salvini deve scegliere tra l’inseguimento di Giorgia Meloni, che alla sua destra suona il corno per radunare un piccolo ma crescente esercito di sovranisti, e il confronto più stretto con i partiti di centro: primo tra tutti, Forza Italia.

Proprio ieri Osvaldo Napoli, deputato di Coraggio Italia, spiegava che i popolari europei hanno votato la Commissaria Ue Ursula von der Leyen insieme con le forze della sinistra riformista. Che Angela Merkel ha sempre rifiutato accordi con la destra radicale, identitaria e nazionalista. E che gli stessi Républicains francesi sono avversari irriducibili di Marine Le Pen, con la quale invece Salvini siede fianco a fianco sui banchi del Parlamento europeo.

Insomma, se Salvini vuol fare un salto di qualità e trasformare la Lega in una forza di governo affidabile e moderata – come già accade nelle regioni del nord e, soprattutto, come avviene per i partiti popolari europei di più lunga tradizione liberaldemocratica – bisognerebbe sciogliere i legami con una forza sovranista alleata di Orban come Fratelli d’Italia.

In questo senso, il Partito Repubblicano americano non sembra un modello idoneo, vista la deriva estremista e populista che ha imboccato con Donald Trump. Sul punto è intervenuto anche il ministro Renato Brunetta, invitando Salvini a una scelta: o con la Meloni, che non a caso sta fuori dal governo, o dentro il Partito popolare europeo, di cui fa parte Forza Italia, partito che sostiene Mario Draghi.

Sul fronte opposto, nel M5s è cominciato lo scontro finale tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. La richiesta di chiarimenti avanzata dal ministro degli esteri dopo la pessima conduzione della partita per il Quirinale da parte del capo politico del movimento ha scatenato un’abbozzo di purga staliniana. “Di Maio dovrà rendere conto di diverse condotte, molto gravi. Ai nostri iscritti e alla nostra comunità”, ha detto Giuseppe Conte in una intervista al Fatto accompagnata da un campagna di tweet bombing per cacciare il ministro dal Movimento.

La faida tra i due protagonisti per mantenere o conquistare la leadership è soltanto all’inizio. Ma, anche in questo caso, accanto alla sorte dei leader c’è un tema di identità e di collocazione politica.

Che cosa sono diventati oggi i Cinquestelle? Nel 2018, al grido unificante del “Vaffa”, avevano raccolto i rancori diffusi nella società italiana, soprattutto al Sud. Quella massa elettorale informe ha prodotto una forza politica gassosa, sia sul piano della identità politica, sia sul piano della struttura organizzativa.

Nel corso della legislatura, il M5s, pur restando il partito più numeroso, ha perso pezzi in tutte le direzioni: alcuni singoli transfughi si sono ricollocati in altri partiti, alcune manciate di peones hanno fondato nuove sigle o si sono riparati nel gruppo misto.

Nel Parlamento europeo, il Movimento naviga ancora senza meta alla ricerca di una appartenenza dopo diversi tentativi di apparentamento falliti: l’approdo finale potrebbe avvenire nel gruppo del Partito socialista europeo, ma molto dipenderà dalla solidità del rapporto con il Partito democratico in Italia.

Invero, la linea dell’abbraccio strategico tra i dem e i pentastellati, promossa dal duo Bettini-D’Alema, è stata terremotata dalle trattative per il Quirinale: Enrico Letta ha potuto verificare nei fatti le ambiguità di Giuseppe Conte, anche se i due continuano a giurarsi fiducia e corrispondenza d’amorosi sensi. In più, alcuni grillini fanno fatica a riconoscersi in un’alleanza giallorossa. Primo tra tutti Conte, che spesso ha preferito accordarsi con Salvini a spese di Letta nella scelta del candidato per il Colle.

Contro il Pd è schierato anche Alessandro Di Battista che Conte ha riesumato in funzione anti-Di Maio. Infine, appare evidente che, per la gran parte dei parlamentari pentastellati, l’avvocato è solo un figurante e la sua leadership è scritta sull’acqua. Quale sarà dunque l’esito delle fibrillazioni nella Lega e nel M5s? Che fine faranno i loro leader? Troppo presto per rispondere. Di sicuro queste correnti sismiche faranno ballare il sistema politico italiano almeno fino alle elezioni del 2023.


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